uomo che lascio Salla era non soltanto ingenuo, romantico e zelante, ma anche convenzionale e grossolano, insomma un ragazzo normale che avrebbe potuto star li a pulir pesci in un villaggio di pescatori, se non avesse avuto la fortuna di nascere principe.
Partii all’inizio dell’autunno, dopo una primavera in cui Salla aveva pianto la morte di mio padre e un’estate in cui aveva salutato Eptarca mio fratello. Il raccolto era stato misero, niente di strano per Salla, dove i campi generano sassi e pietre piu che raccolti, e la capitale, Citta di Salla, era invasa da un nugolo di parassiti che speravano di ricavare qualcosa dal nuovo Eptarca. Una coltre pesante incombeva sulla capitale giorno dopo giorno e su di essa si accumulavano le prime nuvole pesanti dell’autunno che giungevano puntuali dal mare dell’Est. Le strade erano polverose; gli alberi avevano cominciato presto a perdere le foglie, anche le maestose «Spine di Fuoco» che circondavano il palazzo dell’Eptarca; l’odore degli escrementi degli animali delle fattorie prendeva alla gola. Erano tutti cattivi presagi per il regno appena iniziato del nuovo Eptarca: mi sembro che fosse giunto il momento di partire. Anche Stirron era irritabile e fece rinchiudere nelle segrete molti sfortunati consiglieri di Stato. Io ero ancora ben accetto a corte, vezzeggiato e coccolato, soffocato da manti di pellicce e da promesse di baronie nelle montagne; ma quanto sarebbe durato, quanto? Per il momento, Stirron si sentiva in colpa perche aveva ereditato il trono mentre io non avevo ricevuto nulla, e mi trattava con tutti i riguardi; ma appena quell’arida estate avesse lasciato il posto ad un inverno di carestia, le cose sarebbero cambiate: mi avrebbe invidiato perche ero libero da responsabilita e mi si sarebbe messo contro. Avevo studiato a fondo gli annali delle case reali: era gia successo.
Percio mi preparai a partire rapidamente. Soltanto Noim e Halum conoscevano i miei piani. Presi con me le cose da cui non volevo separarmi, come un anello da cerimonia che mi aveva lasciato mio padre, una giacca da caccia di cuoio giallo che prediligevo, e un amuleto di cammeo che racchiudeva i ritratti di Noim e di Halum; lasciai tutti i miei libri, perche i libri si possono trovare dovunque, ed anche la spada dell’uccello che aveva ucciso mio padre, trofeo del giorno della sua morte, che tenevo appesa nella mia camera da letto a palazzo. A mio nome, depositata presso la Banca Reale di Sana, c’era una notevole somma di denaro, cui misi mano in un modo che credevo accorto. Cominciai col trasferire i fondi in sei diverse e piu piccole banche commerciali, nell’arco di piu giorni. Questi nuovi conti erano tenuti congiuntamente con Halum e con Noim. Halum procedette quindi ad effettuare dei prelevamenti, chiedendo che il denaro venisse trasferito alla Banca Commerciale e dei Naviganti di Manneran, sul conto di suo padre Segvord Helalam. Se fossimo stati scoperti, Halum avrebbe dovuto dichiarare che suo padre aveva avuto dei rovesci e che aveva chiesto un prestito a lunga scadenza. Una volta che il denaro fu arrivato senza problemi a Manneran, Halum chiese a suo padre di trasferirlo ancora, questa volta su un conto a mio nome alla Banca del Comandamento di Glin. In questo modo tortuoso riuscii a trasferire i miei fondi senza sollevare i sospetti dei nostri funzionari del Tesoro, che avrebbero potuto meravigliarsi del fatto che un principe di Salla portasse il suo patrimonio in una provincia rivale del Nord. L’unico pericolo di tutto il progetto era che, se il Tesoro si fosse accorto del defluire del denaro, avrebbe interrogato Halum, fatto delle indagini sul conto di suo padre e scoperto che in realta Segvord viveva tranquillamente negli agi e non aveva nessun bisogno del «prestito». Sarebbero sorte delle complicazioni e sarei stato scoperto. Ma le mie manovre passarono inosservate.
Infine, mi recai alla presenza di mio fratello per chiedergli il permesso di lasciare la capitale, come richiedeva l’etichetta di corte.
Era una cosa che mi preoccupava parecchio, perche il mio senso dell’onore mi faceva esitare di fronte alla menzogna, ma d’altra parte non potevo certo rivelare a Stirron la verita. Passai molto tempo con Noim, provando e riprovando le battute che avrei dovuto pronunciare, ma come alunno valevo poco: Noim sputava, imprecava, piangeva, si metteva le mani nei capelli e piu d’una volta mi fece confondere con una domanda astuta.
— Non sarai mai un bugiardo — mi diceva disperato.
— No — ammettevo; — proprio non si puo essere bugiardi.
Stirron mi ricevette nella sala settentrionale, una stanza tappezzata, scura, severa, dalle pareti di pietra grezza e le finestre piccole e strette, che veniva usata soltanto per le udienze con i capi dei villaggi. Con questo non voleva offendermi, penso; semplicemente si trovava li quando il messaggero che gli avevo inviato gli aveva riferito che io desideravo incontrarlo. Il pomeriggio era inoltrato, fuori cadeva una pioggerella grigia e insistente, da qualche lontana torre giungeva il suono delle campane che chiamavano a raccolta gli apprendisti, e le note gravi, disordinate in modo assurdo, risuonavano penetranti attraverso le pareti. Stirron era vestito in modo formale: un voluminoso abito grigio di pelliccia di Scudo di Tempesta, aderenti calzoni di lana rossa, alti stivali di cuoio verde. Aveva al fianco la spada del Comandamento, al petto la pesante, scintillante insegna del potere, gli anelli regali tintinnavano alle sue mani e, se la memoria non m’inganna, aveva sull’avambraccio destro un altro contrassegno di potere. Gli mancava soltanto la corona. Negli ultimi tempi avevo visto spesso Stirron cosi acconciato, alle cerimonie o alle riunioni di Stato, ma trovarlo cosi carico di insegne regali in un pomeriggio normale mi sembro piuttosto ridicolo. Era insicuro al punto da doversi bardare in quel modo per convincersi di essere veramente l’Eptarca? Credeva, in quel modo, di impressionare il fratello piu giovane? Oppure amava tutti quegli ornamenti e li indossava, come un bambino, soltanto per il piacere d’indossarli? Quale che fosse il motivo, Stirron in quell’occasione si rivelo piuttosto superficiale. Mi stupii del fatto che mi avesse divertito, invece di incutermi timore. Probabilmente la mia ribellione ebbe inizio proprio nel momento in cui giunsi al cospetto di Stirron in tutto il suo splendore e riuscii a stento a soffocare le risa.
Sei mesi di governo avevano lasciato il segno su di lui. Aveva la faccia grigia e la palpebra sinistra abbassata, probabilmente per la stanchezza. Teneva le labbra strette e stava rigido con una spalla piu alta dell’altra. Benche ci separassero soltanto due anni, mi sentivo un ragazzo di fronte a lui e mi sembrava impossibile che le preoccupazioni avessero potuto segnare in quel modo il volto di un uomo cosi giovane. Sembrava che fossero passati secoli da quando Stirron e io ridevamo insieme nelle nostre camere da letto, sussurrando tutte le parole proibite e spogliandoci per confrontare i nostri corpi di adolescenti che cominciavano a maturare. Adesso mio fratello era diventato re e io gli offrivo formale obbedienza, incrociando le braccia sul petto, inginocchiandomi e mormorando a capo chino: — Lunga vita a te, Eptarca, signore.
Mio fratello era abbastanza uomo da accettare il mio omaggio formale con un sorriso fraterno. Accolse l’augurio col gesto tradizionale, certo, le braccia levate e le palme volte all’infuori, ma subito dopo lo muto in un abbraccio. Attraverso rapidamente la sala e mi strinse a se. C’era qualcosa di artificioso, vero, nel suo gesto, come se fosse stato li a pensare un modo per accogliere affettuosamente suo fratello. Mi lascio andare subito. Scivolo verso la finestra e guardando fuori pronuncio le sue prime parole: — Una giornata bestiale. Un anno orribile.
— La corona e pesante, Eptarca?
— Hai il permesso di chiamare tuo fratello col suo nome.
— Si vede che sei sfinito, Stirron. Forse prendi troppo a cuore i problemi di Salla.
— La gente ha fame — rispose, — ti sembra una cosa da prendere alla leggera?
— La gente ha sempre avuto fame, anno dopo anno, ma se l’Eptarca si consuma per preoccuparsi di loro…
— Basta, Kinnall. Esageri. — Non c’era nulla di fraterno nel suo tono, adesso; non riusciva a nascondere la sua irritazione. Era seccato del fatto che io avessi notato la sua stanchezza, anche se era stato proprio lui ad iniziare il discorso lamentandosi. La conversazione non aveva piu un tono intimo. Tutto sommato, la condizione dei nervi di Stirron non mi riguardava: non era compito mio confortarlo, per questo c’era il suo fratello di legame. Il mio tentativo di essere gentile era stato inopportuno.
— Cosa sei venuto a cercare, qui? — mi chiese con asprezza.
— L’autorizzazione dell’Eptarca a lasciare la capitale.
Si allontano dalla finestra e mi guardo fissamente. Lo sguardo che fino a quel momento era rimasto vuoto e spento s’animo d’un tratto. Comincio a roteare follemente gli occhi.
— Partire? Vuoi partire? E per dove?
— Si vorrebbe accompagnare il proprio fratello di legame Noim alla frontiera settentrionale — risposi con tutta la naturalezza di cui ero capace. — Noim si reca in visita al quartier generale di suo padre, il generale Luinn Condorit, che non ha piu visto, quest’anno, dal giorno dell’incoronazione di Vostra Altezza, e ha chiesto che in nome dell’amicizia, lo si accompagni nel viaggio.
— Quando vorresti partire?
— Fra tre giorni, se cosi piace all’Eptarca.
— E quanto ti tratterresti fuori?
Stirron quasi abbaiava le domande.
— Fin quando comincera a cadere la prima neve.