vergogna, ma perche vorro anche compiacermi della mia persona fisica. Sono alto: una donna di media statura mi arriva appena al petto. Ho capelli lunghi e scuri che mi scendono fin sulle spalle. Da qualche tempo vi sono comparse delle ciocche grigie, e lo stesso e successo alla mia barba, che e piena, folta e mi nasconde il viso. Il naso e dritto e prominente, con le narici larghe; le labbra sono carnose e mi danno un aspetto sensuale, dicono. I miei occhi sono di un bruno profondo, distanziati tra di loro: sembrano, mi han fatto capire, gli occhi di un uomo da sempre abituato al comando.

Ho le spalle larghe e il torace profondo. Una folta pelliccia di ruvido pelo scuro corre quasi dappertutto sul mio corpo. Le braccia sono lunghe, le mani grandi. Ho muscoli ben sviluppati, che affiorano sotto la pelle. Per un uomo della mia statura, mi muovo con grazia e scioltezza. Primeggio negli sport e, quando ero piu giovane, ho lanciato l’asta piumata per tutta ia lunghezza delio Stadio di Manneran, cosa che fino ad allora nessuno era mai riuscito a fare.

La maggior parte delle donne mi trova attraente, ad eccezione di quelle che preferiscono un tipo d’uomo piu delicato, piu fanciullesco, e hanno paura della forza, della potenza e della virilita. Certo, il potere politico che ho avuto in rnano ai miei tempi ha contribuito a condurre nel mio letto diverse donne; ma senza dubbio esse erano attratte piu dal mio corpo che da altre sottili considerazioni. La maggior parte e rimasta delusa, comunque. I muscoli potenti e la pelle villosa non sono sufficienti a fare un buon amante, ne genitali imponenti come i miei sono una garanzia d’estasi. Non sono un campione d’accoppiamento. Vedete: non vi nascondo nulla. C’e in me una certa impazienza costituzionale che si manifesta unicamente nell’atto carnale. Quando penetro una donna, mi trovo rapidamente a dar sfogo alle mie passioni e raramente riesco a protrarre l’atto fino al piacere di lei. A nessuno, neppure al confessore, ho mai rivelato questa mia debolezza, ne mai ho creduto che un giorno l’avrei fatto. Ma molte donne di Borthan hanno conosciuto questo mio grosso difetto nel modo piu immediato, a loro spese, e senza dubbio qualcuna, inasprita, avra sparso la voce, per giocarmi un tiro. L’ho scritto, adesso, per rimanere obiettivo. Non volevo che voi pensaste a me come ad un possente gigante peloso, senza sapere quanto spesso la mia carne ha tradito le mie voglie. E probabile che questa mia debolezza sia stata una delle forze che hanno forgiato il mio destino fino a questo giorno nelle Terre Basse Bruciate, e voi dovete conoscerla.

5

Mio padre era Eptarca ereditario della provincia di Salla, sulla costa orientale. Mia madre era la figlia dell’Eptarca di Glin; egli l’incontro durante una missione diplomatica e la loro unione fu decisa, si disse, fin dal momento in cui si videro. Il primo figlio fu mio fratello Stirron, che ora e Eptarca a Salla al posto di mio padre. Io nacqui due anni piu tardi e dopo di me vennero altre tre figlie; due di esse sono ancora vive, mentre la piu giovane fu uccisa dai razziatori di Glin circa venti lune fa.

Ho conosciuto poco mio padre. Su Borthan, siamo tutti stranieri tra di noi, ma di solito il proprio padre e un po’ meno distante degli altri; col vecchio Eptarca non era cosi. Tra noi ci fu sempre un impenetrabile muro di formalita. Nel rivolgerci a lui, dovevamo usare le stesse formule di rispetto degli altri sudditi. I suoi sorrisi erano cosi rari che credo di poterli ricordare uno per uno. Una volta, non lo dimentichero mai, mi prese al suo fianco sul trono di legno grossolanamente intagliato, mi lascio toccare l’antica imbottitura gialla e mi chiamo affettuosamente col mio nome da fanciullo; era il giorno della morte di mia madre. Altrimenti mi ignoro sempre. Io lo amavo e lo temevo, mi nascondevo tremando dietro i pilastri del suo Tribunale per guardarlo mentre amministrava la Giustizia. Pensavo che se mi avesse scorto mi avrebbe annientato, ma non potevo privarmi della vista di mio padre in tutta la sua maesta.

Egli era, stranamente, un uomo sottile e di media statura: e io e mio fratello torreggiavamo su di lui fin da quando eravamo ragazzi. Ma c’era in lui una terribile forza di volonta che gli permetteva di superare qualsiasi ostacolo. Una volta, quando ero bambino, venne in visita all’Eptarchia un certo ambasciatore, un tipo dell’Ovest, grosso, abbronzato dal sole. Ancor oggi lo ricordo grande come il Monte Kongoroi: probabilmente era soltanto alto e grosso quanto lo sono io adesso. Durante il banchetto l’ambasciatore bevve troppo del nostro vino blu e disse di fronte a mio padre, ai suoi compagni e alla sua famiglia: — Si vorrebbe dimostrare la propria forza agli uomini di Salla, ai quali si potrebbe insegnare qualcosa in fatto di lotta.

— C’e qui qualcuno — replico mio padre, con furia improvvisa, — al quale forse non c’e da insegnare proprio nulla.

— Che venga fuori — disse il grosso uomo dell’Ovest alzandosi e gettando via il mantello. Ma mio padre, sorridendo, e la vista di quel sorriso fece tremare i suoi cortigiani, rispose al vanaglorioso straniero che non sarebbe stato corretto farlo combattere mentre aveva la mente annebbiata dal vino. Queste parole, naturalmente, mandarono del tutto fuori di se l’ambasciatore. Entrarono i musicisti per cercare di allentare la tensione, ma l’ira del nostro visitatore non accenno a diminuire, dimodoche, un’ora dopo, quando l’ubriachezza gli fu un poco passata, egli chiese ancora di incontrare il campione di mio padre. Nessun uomo di Salla, disse il nostro ospite, sarebbe stato in grado di resistere alla sua forza.

A questo punto l’Eptarca disse: — Combattero io con te, io stesso.

Quella sera, io e mio fratello eravamo seduti all’estremita piu lontana della tavola, insieme con le donne. Giu dal trono piovve, dalla voce di mio padre, la sbalorditiva parola «Io», subito seguita dall’altra «Io stesso». Erano oscenita che Stirron ed io avevamo spesso sussurrato ridacchiando nel buio della nostra camera da letto, ma non avremmo mai immaginato di sentirle pronunciare irosamente nella sala dei banchetti e proprio dalle labbra dell’Eptarca. Al colpo reagimmo in modo diverso: Stirron sussulto violentemente e rovescio la sua coppa, mentre io mi lasciai sfuggire un acuto risolino a stento represso, d’imbarazzo e di delizia, che mi procuro un fulmineo schiaffo da parte della dama che si occupava di noi ragazzi. La mia risata era in realta soltanto un modo per nascondere l’orrore che sentivo dentro di me. Non avrei mai creduto che mio padre conoscesse quelle parole, e meno che mai che le avrebbe pronunciate davanti a tale augusta compagnia. Combattero io con te, io stesso. Mentre l’eco delle parole proibite ancora mi stordiva, mio padre si fece avanti rapidamente, getto via il mantello, si pose di fronte al robusto ambasciatore, lo afferro al gomito e alla coscia in un’agile presa sallana e lo mando immediatamente lungo disteso sul lucido pavimento di pietra grigia. L’ambasciatore getto un grido terribile: aveva una gamba ripiegata stranamente all’infuori, in modo da formare con l’anca un angolo impossibile. Per il dolore e l’umiliazione comincio a battere piu e piu volte il pavimento con il palmo della mano. Forse, adesso, nel palazzo di mio fratello Stirron si pratica la diplomazia in un modo piu sofisticato.

L’Eptarca mori quando io avevo dodici anni ed ero alle soglie della virilita. Ero vicino a lui, quando la morte lo prese. Per sfuggire la stagione delle piogge, a Salla, ogni anno egli andava a caccia di uccelli-spada nelle Terre Basse Bruciate, proprio nella zona in cui io adesso mi nascondo e aspetto. Fino ad allora, non ero mai andato con lui, ma quella volta mi fu permesso di accompagnare il gruppo dei cacciatori, dato che ormai ero un giovane principe e dovevo imparare quell’arte propria del mio rango. Stirron, come futuro Eptarca, aveva altre cose da imparare e rimase a Salla come reggente durante l’assenza di mio padre dalla capitale. Sotto un cielo plumbeo, pesante di nuvole, la colonna di veicoli, una ventina, si avvio fuori di citta, verso occidente, attraversando la pianura invernale, spoglia e inzuppata d’acqua. Le piogge non ebbero pieta, quell’anno, e lavarono via la preziosa terra superficiale, fino a mettere a nudo l’ossatura rocciosa del nostro paese. Dappertutto i contadini si affannavano a riparare gli argini, ma i risultati erano scarsi. Vedevo i fiumi in piena portare via, insieme con l’acqua giallo-bruna, la ricchezza di Salla: e mi veniva da piangere al pensiero che quel tesoro veniva trascinato in fondo al mare. Quando arrivammo nella zona occidentale di Salla, la strada si fece stretta e comincio ad inerpicarsi sulle prime pendici della catena degli Huishtor. In breve ci trovammo in una zona piu asciutta e piu fredda dove, invece della pioggia, dal cielo veniva giu la neve e dove gli alberi erano fasci di rami secchi sul candore accecante che copriva la terra. Seguendo la strada di Kongoroi, penetrammo nei Monti Huishtor. Gli abitanti ci vennero incontro per dare il benvenuto all’Eptarca mentre passava. Le montagne brulle sembravano denti di porpora contro il cielo grigio. Noi, pur dentro i nostri veicoli chiusi, tremavamo di freddo; ma la bellezza tempestosa di quei posti mi faceva dimenticare il disagio. Grandi distese piatte di rocce scure striate fiancheggiavano la strada e non vi era praticamente traccia di humus. Ad eccezione di alcuni punti ben riparati, non c’erano ne alberi ne arbusti. Voltandoci indietro, potevamo vedere giu in basso tutta Salla, come in una carta geografica, dal candore dei distretti occidentali fino alle popolose e scure spiagge orientali, il tutto in scala ridotta, quasi irreale. Non ero mai arrivato cosi lontano da casa, prima di allora. Anche se ormai eravamo nelle zone alte, anche se eravamo, come sembrava, a meta strada tra cielo e mare, le vette piu interne dei Monti Huishtor si levavano ancora davanti a noi, e

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