Tutto lo staff della campagna elettorale entro nella nuova amministrazione cittadina. Quinn nomino Haig Mardikian vicesindaco e Bob Lombroso amministratore delle finanze. George Missakian divento coordinatore delle comunicazioni e delle relazioni pubbliche e Ara Ephrikian venne nominato capo della Commissione di Pianificazione cittadina.

Il mio incarico era qualcosa di informe, evanescente: ero consigliere privato, indovino, scioglitore di nodi, l’indistinta presenza all’ombra del trono. Dovevo usare le mie capacita intuitive per impedire che Quinn sprofondasse nell’abisso, e questo in una citta in cui i lupi erano pronti a scagliarsi contro il sindaco se l’ufficio meteorologico avesse permesso a un’imprevista tormenta di neve di abbattersi sulla citta. E per questo mi davano uno stipendio che arrivava a malapena a meta del denaro che avrei guadagnato come consulente privato. Tuttavia, il mio salario municipale mi forniva anche piu di quanto avessi bisogno. E poi c’era un altro compenso: l’affascinante, meravigliosa sicurezza che dove fosse arrivato Paul Quinn, io sarei stato con lui.

Su, fino alla Casa Bianca.

Avevo sentito l’imminenza dell’elezione a presidente di Quinn fin da quella prima sera nel ’95, alla festa di Sarkisian, e Haig Mardikian l’aveva avvertita molto prima di me.

In italiano esiste un termine, “papabile”, per descrivere un cardinale che potrebbe diventare papa. Quinn era presidenzialmente “papabile”. Era giovane, pieno di personalita, indipendente, una tipica figura kennedyana; bisogna tener conto che per quarant’anni i tipi alla Kennedy avevano avuto una presa mistica sull’elettorato. D’accordo che era completamente sconosciuto fuori New York, ma la cosa non aveva molta importanza: con tutte le crisi urbane che si erano succedute a un’intensita del 250% sui livelli della generazione precedente, chiunque dimostri di riuscire a governare una delle principali citta diventa automaticamente un presidente potenziale, e se New York non avesse distrutto Quinn come era successo a Lindsay negli Anni ’60, il nostro uomo avrebbe avuto una reputazione nazionale nel giro di un anno o due. E allora…

All’inizio dell’autunno 1997, con l’elezione a sindaco gia praticamente vinta, mi ritrovai a pensare sempre piu spesso, in un modo quasi ossessivo, alle possibilita che Quinn avrebbe avuto di essere nominato candidato alla presidenza. “Sentivo” che sarebbe stato eletto, se non nel 2000, certo quattro anni dopo. Ma limitarsi a fare questa previsione non bastava. Giocavo con la presidenza di Quinn nello stesso modo in cui un ragazzino gioca con se stesso, eccitandomi all’idea, traendone compiacimento per me stesso, lasciandomi cullare.

In gran segreto — perche mi sentivo imbarazzato di fronte a questi progetti prematuri; non volevo che freddi professionisti come Mardikian e Lombroso sapessero che mi ero gia lasciato irretire da vaghe masturbazioni fantastiche sul lontano e fulgido futuro del nostro eroe, per quanto fossi convinto che anche loro ci avevano gia pensato — in gran segreto, stilai liste interminabili di uomini politici che avremmo dovuto coltivare in California, Florida e Texas, feci un grafico della dinamica dei blocchi elettorali su scala nazionale, architettai degli schemi complicati che rappresentavano i vertici di potere di una convenzione nazionale per le nomine, composi una infinita di finti scenari per l’elezione stessa. Tutto questo, come ho gia detto, aveva una natura ossessiva, in quanto ritornavo ancora e ancora, avidamente, impazientemente, inevitabilmente, in ogni momento libero, ai miei progetti e alle mie analisi.

Ciascuno ha qualche ossessione, qualche fissazione che diventa un’armatura a guardia della sua vita: cosi ci trasformiamo in collezionisti di francobolli, esperti di giardinaggio, ciclisti volanti, maratoneti, cocainomani, maniaci sessuali. Tutti noi abbiamo lo stesso vuoto dentro e ciascuno cerca di riempirlo essenzialmente nello stesso modo, e non ha importanza che tipo di riempitivo scegliamo. Quello che intendo dire e che adottiamo la cura che preferiamo, ma soffriamo tutti della stessa malattia.

Cosi facevo sogni popolati dal presidente Quinn. Innanzi tutto, pensavo che ne fosse degno. Non era solo un capo irresistibile; era anche umano, sincero e sensibile alle necessita della gente. (La sua filosofia politica, cioe, si avvicinava molto alla mia.) Inoltre, cominciavo a scoprire in me stesso il bisogno di essere coinvolto nel miglioramento delle carriere altrui, di dare la scalata al successo all’ombra di qualcun altro, mettendo tranquillamente le mie capacita stocastiche al servizio degli altri. Provavo un sottile e segreto piacere, che nasceva da una complessa brama di potere mescolata a un desiderio di rimanere nell’ombra, cioe la sensazione di essere meno vulnerabile quanto meno ero visibile. Io non avrei potuto diventare presidente, non ero disposto a sopportare l’agitazione, l’uso del potere, l’esposizione continua e quel feroce e gratuito odio che il pubblico cosi facilmente riversa su coloro che cercano il suo amore. Ma lavorando sodo per far eleggere Quinn sarei entrato comunque alla Casa Bianca, dalla porta di servizio, senza dovermi denudare completamente agli occhi altrui, senza correre i veri rischi. Ecco la radice della mia ossessione portata alla luce. Volevo usare Paul Quinn e lasciare che pensasse che era lui a usare me. Avevo identificato me stesso con lui: era, per me, il mio alter ego, la mia maschera ambulante, il mio uomo di paglia, il mio burattino. Volevo governare. Volevo il potere. Volevo diventare Presidente, Re, Imperatore, Papa, Dalai Lama. Tramite Quinn ci sarei arrivato nell’unico modo possibile. Avrei tirato io le redini dell’uomo che teneva le redini. Cosi io sarei diventato mio padre e l’affettuoso papa di ciascuno.

11

Alla fine di marzo, 1999, ci fu una giornata di gran freddo. Era iniziata come tutti gli altri giorni da quando lavoravo per Quinn, ma poi prese un binario imprevisto prima del pomeriggio. Mi ero alzato alle sette e un quarto, come al solito. Rapida colazione, fuori casa alle otto in tempo per prendere la corsa per Manhattan. Prima feci un salto al mio ufficio nei quartieri alti, il vecchio ufficio della Lew Nichols Associates che continuavo a tenere in funzione con un personale ridotto al minimo finche fossi rimasto nell’amministrazione municipale. Li mi occupai delle solite analisi di progetti di minore importanza amministrativa: la costruzione di una nuova scuola, la chiusura di un vecchio ospedale, cambiamenti nella disposizione delle varie zone per poter costruire, in un distretto residenziale, un nuovo centro di eliminazione per i drogati con lesioni al cervello, tutte cose di poco conto, ma in potenza esplosive in una citta in cui i nervi di ciascuno erano tesi oltre ogni speranza di rilassamento e piccole contrarieta diventavano subito mortificazioni insopportabili. Quindi, intorno a mezzogiorno, mi diressi in centro, all’Edificio Municipale, dove dovevo incontrare Bob Lombroso e fare colazione con lui.

— Il signor Lombroso sta parlando con un visitatore nel suo studio — mi disse la segretaria — ma vuole che lo raggiungiate ugualmente.

Lo studio di Lombroso era un palcoscenico adatto alla sua persona. Lui era un uomo alto, ben fatto, di circa quarant’armi, con un aspetto in un certo senso teatrale, una figura imponente dagli scuri capelli ondulati leggermente brizzolati alle tempie, una fitta barba nera, sorriso smagliante e il modo di fare energico e veemente di un mercante di tappeti di successo. L’ufficio, cancellato a sue spese lo stile Primo Burocrate, era un ricco studio levantino, caldo e fragrante, con le lucenti pareti rivestite di cuoio, folti tappeti, pesanti tendaggi di velluto marrone, lampade spagnole di bronzo opaco traforato in mille punti, una lucida scrivania intarsiata di diversi legni scuri con placche di marocchino lavorato, grandi anfore cinesi bianche sul pavimento, e, in una vetrinetta barocca, la sua adorata collezione di oggetti ebraici del Medioevo, corone, corazze di argento e fermagli pure in argento per il rotolo di pergamena della Legge, tende ricamate provenienti da sinagoghe tunisine o iraniane, lampade Sabbath di filigrana, bastoncini di candele, scatole per aromi, candelabri. In questo santuario di clausura impregnato di odore di muschio, Lombroso regnava sul fisco municipale come un principe di Sion: male incolga agli sciocchi Gentili che disdegnano le sue delibere.

Il suo visitatore era un ometto dall’aspetto avvizzito, di cinquanta o sessant’anni, una persona insignificante con la testa stretta e lunga ricoperta qua e la da ciuffi di corti capelli grigi. Era vestito cosi semplicemente, in un vecchio e logoro completo marrone risalente probabilmente all’epoca Eisenhower, che faceva apparire l’eleganza pratica e agile di Lombroso di una stravaganza estremamente vanitosa e mi faceva sentire un figurino nel mio mantello color bruciato con cuciture di rame, di cinque anni prima. Sedeva tranquillo e sgraziato, con le mani intrecciate.

Aveva un aspetto anonimo, quasi invisibile, uno dei tanti Smith del mondo e la sua pelle aveva un colore plumbeo, la carne delle guance era molliccia, mostrando una stanchezza sia fisica che spirituale. Il tempo aveva svuotato quell’uomo di qualsiasi forza potesse avere avuto un tempo.

— Ti presento Martin Carvajal, Lew — disse Lombroso.

Carvajal si alzo e mi strinse la mano. La sua era gelida.

— E un piacere conoscervi finalmente, signor Nichols — esclamo Carvajal con voce mite e come intorpidita, che mi giunse dall’altra estremita dell’universo.

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