variare un po’ l’incarico. E tu…

— Piantala, Bart.

— …ci vedi ogni sorta di sinistri e perversi…

— Macche!

— Chalk, allora. E tu gli tieni mano. E un complotto? Chi vuole la mia pelle?

Nikolaides premette col pollice il bottone del dispensatore, e un vassoietto di tranquillanti sbuco. In silenzio, egli ne porse uno ad Aoudad, il quale prese il tubetto color avorio e se lo premette sull’avambraccio. Un attimo dopo la marea dell’ansia calo. Aoudad si tiro la punta aguzza dell’orecchio sinistro. Brutto affare, quella crisi di ansia e di sospetto. Gli capitava piu spesso, ora. Temeva che gli stesse succedendo qualcosa di molto spiacevole; che Duncan Chalk si fosse inserito nelle sue emozioni, per abbeverarsi di sensazioni, seguendolo nella fatale parabola dalla paranoia alla schizofrenia e alla sospensione catatonica.

Non permettero che cio mi accada, decise Aoudad. Se la goda come gli pare; ma non ficchera le sue zanne nella mia gola.

Poi disse: — Conserveremo inalterati i nostri incarichi finche Chalk non disponga altrimenti. D’accordo?

— D’accordo — rispose Nikolaides.

— Vogliamo vederli al monitor, aspettando di arrivare?

— Nessuna obiezione.

La vettura stava oltrepassando la Galleria degli Appalachi. Qui la grande strada di comunicazione correva profondamente incassata, chiusa tra alte muraglie nude, e, mentre la vettura filava sparata ad accelerazione d’alta G, un barlume di aspettativa apparve negli occhi di Nikolaides, comodamente seduto nell’enorme sedile destinato a Chalk. Aoudad, accanto a lui, apri i canali di comunicazione. Gli schermi si accesero.

— Questo e il tuo — disse. — Questo e il mio.

Guardo nel proprio. La vista di Minner Burris non faceva piu rabbrividire Aoudad; ma era sempre uno spettacolo spettrale. Burris, ritto davanti allo specchio, offriva ad Aoudad una doppia immagine di se stesso.

— Eccolo — mormoro Aoudad. — Che ne diresti, se ti facessero una cosa simile?

— Mi ucciderei all’istante — disse Nikolaides. — Tuttavia ho l’impressione che la ragazza sia ancor piu nei pasticci. La vedi, da dove sei?

— Che fa? E nuda?

— Fa il bagno — disse Nikolaides. — Cento bambini! Mai posseduta da un uomo! E cose simili le diamo per scontate, Bart: ci lasciano indifferenti. Guarda.

Aoudad guardo. Lo schermo schiacciato e luminoso gli mostro una ragazza nuda in piedi sotto il vibraspray. Si auguro che in quel preciso istante Chalk fosse in collegamento col suo flusso emotivo, perche, nel guardare il corpo di Lona Kelvin, non provava niente. Niente di niente. Neanche un briciolo di desiderio.

La ragazza doveva pesare si e no quarantacinque chili. Aveva le spalle cascanti, il viso smunto, gli occhi spenti. Seni piccoli, vita snella, fianchi da maschietto. Mentre Aoudad guardava, lei si giro (lasciandogli scorgere delle natiche piatte, per niente femminili) e chiuse il vibraspray. Comincio a vestirsi. I gesti erano lenti, l’espressione imbronciata.

— Puo darsi che io sia prevenuto, perche ho lavorato con Burris — disse Aoudad — ma mi sembra che sia molto piu complesso di lei. Questa e solo una bambina che ha avuto la vita difficile. Che cosa potrebbe vedere di particolare, in lei?

— Un essere umano — disse Nikolaides. — Potrebbe bastare. Chissa. Chissa. Riunendoli… Val la pena di tentare.

— Parli come un filantropo — disse Aoudad, meravigliato.

— Non mi piace vedere la gente che si fa del male.

— E a chi piace, eccetto Chalk? Ma com’e possibile appassionarsi a questi due? Dov’e l’appiglio? Sono troppo lontani da noi. Sono grotteschi. Sono barocchi. Non vedo come Chalk pensi di farli gradire dal pubblico e guadagnarci.

Nikolaides disse pazientemente: — Presi da soli, sono degli aborti. Mettili insieme, e avrai Romeo e Giulietta. Chalk, in queste cose, ha un certo fiuto.

Aoudad porto lo sguardo dal viso insignificante della ragazza alla maschera sinistra che era il viso di Minner Burris, e scrollo il capo. La vettura si infilava come un ago nel tessuto nero della notte. Egli spense gli schermi e chiuse gli occhi. Gli danzarono nella mente immagini di donne, di donne vere, adulte, con corpi tondeggianti e morbidi.

La neve si infittiva nell’aria intorno a loro. Persino nel muso schermato della vettura simile a un grembo materno, Bart Aoudad provo un senso di gelo.

4

Figlia della tempesta

Lona Kelvin indosso gli abiti. Due capi di biancheria, due capi di vestiario, grigio su grigio, e fu pronta. Si avvicino alla finestra della sua cameretta e guardo fuori. Una nevicata. Vortici bianchi nella notte. Ci si liberava della neve alla svelta, quando toccava il suolo; ma non si poteva impedire che cadesse. Non ancora, per lo meno.

Lona decise di fare una passeggiata al Portico. Poi a dormire. E cosi, era passato un altro giorno.

Si infilo la giacca, e si guardo attorno.

C’erano delle fotografie di bambini, ben incollate sulle pareti. Non cento bambini, ma una sessantina o una settantina. E non erano i suoi. Ma sessanta fotografie di neonati erano come cento. E per una madre come Lona, qualsiasi bambino era come uno dei suoi bambini.

Avevano il solito aspetto di tutti i neonati. Visetti rotondi e senza forma, nasini a patatina, labbra lucide di bava, occhi che non vedono. Piccole orecchie di una dolorosa perfezione. Manine ad artiglio, con unghie incredibilmente lucide. Pelle morbida. Lona sporse la mano a toccare la fotografia piu vicina alla porta, immaginando di toccare la pelle vellutata di un neonato. Poi porto la mano al proprio corpo. Tocco il proprio ventre piatto. Tocco un seno piccolo e duro. Tocco quelle sue reni che avevano e non avevano concepito una schiera di figli, e scosse il capo. Poteva sembrare un gesto di compatimento per se stessa; ma questo sentimento si era ormai prosciugato quasi del tutto, lasciando solo un sedimento granuloso, di confusione e di vuoto.

Lona usci. Dietro di lei la porta si richiuse da se, silenziosamente.

Raggiunse in breve il livello stradale attraverso la gabbia di discesa. Fra gli edifici altissimi, il vento sferzava gli stretti passaggi. In alto, lo splendore artificiale della notte respingeva le tenebre, con globi colorati che si spostavano silenziosi e oscillanti avanti e indietro, e sui quali danzavano i fiocchi di neve. Il marciapiede era tiepido. Gli edifici, parte per parte, erano illuminati. I piedi di Lona le dicevano: al Portico, al Portico, per camminare un poco nello scintillio e nel tepore di questa notte di neve.

Nessuno la riconosceva.

Era una semplice ragazza che andava a spasso da sola, di sera. I capelli che le svolazzavano sulle orecchie erano color topo. Aveva un collo dalla nuca esile, spalle cadenti. Un corpo misero. Quanti anni? Diciassette. Pero si poteva dargliene quattordici. Un topino di ragazza.

Un topino.

Dr. Teh Ping Lin, San Francisco, 1966: «All’epoca prestabilita dell’ovulazione ormonale, esemplari femminili di topo del ceppo aguti nero C3H/HeJ furono introdotti nelle gabbie di topi maschi fecondi appartenenti a un ceppo albino, sia BALB/c, sia Cal A (originariamente A/Crgl/2). Da nove a dodici ore dopo l’accoppiamento previsto, dagli ovidotti furono prelevate le uova. Fu possibile identificare le uova fecondate, per la presenza di un secondo corpo polare o con l’osservazione dei pronuclei».

L’esperimento mise a dura prova il dottore. La microiniezione di cellule viventi non era una novita neanche allora; ma il lavoro con cellule di mammiferi era risultato difettoso. Gli sperimentatori non erano stati in grado di salvaguardare l’integrita strutturale o funzionale dell’intero uovo.

Nessuno aveva mai informato Lona Kelvin del fatto che: «Risulta piu difficile iniettare entro l’uovo di mammifero che non entro altre cellule a causa della spessa zona pellucida e della membrana vitellina, dotate di alta elasticita e resistenti entrambe alla penetrazione di un microstrumento, specialmente nello stadio non fertilizzato».

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