raffiche di mitragliatrici che spazzavano il terreno di scontro. Una guerra estenuante, col nemico a pochi passi di distanza, pronto a rispondere a voce ai motteggi e agli insulti che i fanti erano soliti lanciare dalle trincee.

Quella sorta di cameratismo tra soldati e nemici non era un comportamento che gli ufficiali potessero tollerare e anche il maggiore aveva dovuto punire un giovane alpino perche si era permesso di rivolgere gli auguri di Natale a un fante austriaco appostato poco lontano.

«E se per caso domani quello a cui hai fatto gli auguri ti si parasse davanti con la baionetta spianata», aveva detto il maggiore, mentre redarguiva il soldato, «che cosa gli diresti? Non mi sbudellare, io sono quello che ti ha augurato Buon Natale? Siamo in guerra, ragazzi», aveva aggiunto rivolgendosi ai suoi. «A nessuno, per nessun motivo, e concesso di fraternizzare col nemico.»

Quella era stata una delle rare volte in cui il comandante di compagnia aveva punito uno dei suoi uomini. Per la maggior parte la truppa era composta da contadini delle valli, praticamente analfabeti, la cui indole li predisponeva piu alla mungitura delle vacche o alla mietitura dei raccolti che a uccidere un loro coetaneo austriaco il quale, a sua volta, aveva delle mucche gravide e delle messi dorate che lo aspettavano a casa.

Alberto Sciarra non tornava a casa da quando era iniziata la guerra, ne sapeva quando mai vi avrebbe fatto ritorno. Dopo che il tenente Cassali era stato ucciso, due mesi prima, nessuno si era dato la pena di rimpiazzarlo malgrado le insistenti sollecitazioni del maggiore, che si era visto costretto ad assegnare il comando di uno dei tre plotoni della sua compagnia a un sottufficiale. Non che questo fosse fonte di preoccupazione dal punto di vista strettamente militare: un sergente poteva avere molta piu esperienza di un qualsiasi ufficiale di primo pelo. La cosa che piu impensieriva il comandante era il tono confidenziale che si era instaurato tra i sottufficiali e la truppa: per definizione la figura del graduato era quella di tramite tra gli ufficiali e gli alpini.

Erano trascorse alcune ore dalla mezzanotte, quando gli uomini avevano esploso dei colpi in aria per festeggiare un anno, il 1916, che si affacciava su uno scenario ben poco rassicurante. Gli austriaci, stranamente, non avevano risposto alla salva augurale: forse anche i comandanti asburgici avevano punito i soldati a causa dello scambio di auguri natalizi.

All’improvviso, i trecento chilogrammi di esplosivo che gli austriaci avevano collocato proprio sopra alla cengia saltarono in aria con un boato. Le montagne sembrarono contenere quel rombo assordante che violava la quiete delle vette e il frastuono vago a lungo, di valle in valle, confondendosi con la propria eco. Segui quindi la pioggia di massi e ciottoli che rotolavano lungo i dirupi.

Nelle prime luci di quella fredda mattina del nuovo anno, gli alpini in trincea alzarono gli occhi verso un cielo livido, immobili e impotenti, sperando solamente che Iddio frapponesse la sua mano provvidenziale tra il loro rifugio e la frana provocata dall’esplosione. E Dio fu benevolo: la camera di mina che gli austriaci avevano scelto, nell’intento di distruggere le piu avanzate postazioni italiane, si rivelo inefficace. La parete che avrebbe dovuto abbattersi sulle trincee occupate dagli alpini fu infatti deviata da alcuni enormi massi: l’unico risultato conseguito dai nemici fu il temporaneo isolamento di qualche postazione minore.

Alberto Sciarra osservo incredulo il fronte della valanga di roccia deviare il suo corso. Rimase immobile e in silenzio, quasi temesse che qualsiasi movimento potesse scatenare una nuova frana: il maggiore intuiva che quel primo e isolato scoppio sarebbe stato l’inizio di una guerra subdola e, nel vero senso della parola, sotterranea, la piu vasta guerra di mina dell’intero conflitto.

Il colonnello Cantini visito la prima linea il giorno seguente, il 2 gennaio 1916. Quando il comandante del battaglione alpino e il maggiore furono da soli all’interno della galleria che fungeva da alloggio, il superiore si tolse l’elmetto e sedette dinanzi a un caffe fumante.

«Che ne pensate dell’esplosione di ieri notte, maggiore?» chiese Cantini, apprezzando, piu del gusto della bevanda, l’intenso calore che si sviluppava dalla gavetta di alluminio.

«Penso che sia soltanto l’inizio, signore», rispose Sciarra. «Non credo che gli austriaci abbiano fatto brillare un grande quantitativo di esplosivo: tre o quattrocento chilogrammi al massimo. Ma che cosa sarebbe successo se la carica fosse stata maggiore o se quel provvidenziale sbarramento di massi non avesse deviato il corso della frana? Io credo, signore, che quella di ieri sia stata una prova generale e che la rappresentazione vera e propria debba ancora andare in scena.»

«E quindi?»

«E quindi, signor colonnello, ritengo che nei prossimi mesi assisteremo a un singolare modo di combattere: non aperto come quello per cui siamo addestrati, ma altrettanto pericoloso e letale.»

«Anche se sono d’accordo con voi, maggiore, spero che il tempo non vi dia ragione. Conosco la guerra di mina sin troppo bene per non temerla.»

Cantini bevette ancora una sorsata di caffe, poi riprese: «A giorni dovrebbe essere aggregato alla vostra compagnia il sostituto del povero tenente Cassali. Si tratta di un giovane volontario straniero. Per quel poco che ho avuto modo di sapere, un valoroso soldato».

«Uno straniero, avete detto, signore?»

«Si, maggiore, si tratta di un ufficiale rumeno arruolato nei ranghi della nostra brigata. Anch’egli, come voi, di nobili origini.»

«Non nego, signore, che avrei preferito un compatriota. Ma capisco le esigenze della guerra e sono pronto ad accettare chiunque, purche si tratti di una persona determinata a fare il proprio dovere di soldato.»

«Da quanto ho saputo, mi sento di poter garantire per lui: il tenente Minhea Petru e gia stato impegnato al fianco delle nostre truppe, e si e sempre comportato con onore. Mi e stato riferito che, a onta della giovane eta, sia da considerarsi un veterano.»

«E voi dite che ha scelto volontariamente la sua destinazione? E forse un pazzo a scegliere questo inferno?»

«Avete ragione, maggiore, ma quale fronte e un luogo piacevole per un soldato?»

«Mi auguro sia un ufficiale esperto e non un giovane con velleita suicide», Sciarra abbozzo un sorriso, «e che non sia necessario un interprete per far comprendere agli uomini gli ordini del loro ufficiale.»

«Petru parla un ottimo italiano. A proposito di dimestichezza con le lingue, maggiore, dal comando della brigata mi chiedono conferma sulle vostre capacita di poliglotta. A loro risulta che voi ve la caviate ottimamente con l’inglese, col francese e col tedesco, per non parlare dell’arabo.»

«Confermo, signor colonnello. La mia famiglia, da generazioni, si occupa di trasporti marittimi e, per tradizione, ai maschi vengono insegnate diverse lingue sin dalla tenera eta. Credo di aver trascorso piu anni all’estero che nella mia Genova: sono in grado di parlare senza inflessioni straniere il tedesco, l’arabo e l’americano, non l’inglese», preciso Sciarra, «e so leggere e scrivere correttamente in queste lingue. Col francese me la cavo un po’ meno bene, ma comunque saprei come districarmi in una conversazione.»

Il commercio per mare era il motivo per cui la famiglia dei marchesi Sciarra della Volta aveva abbandonato la nativa Palermo e si era trasferita a Genova, dove il bisnonno di Alberto aveva fondato un’agenzia marittima che, nel corso delle due generazioni seguenti, era diventata una tra le piu rinomate e attive nel campo. I marchesi Sciarra della Volta erano ormai una famiglia molto in vista a Genova, una citta che nei primi anni del secolo aveva assistito al rinascere dei suoi traffici marittimi. L’antica repubblica marinara, raccolta tra i monti e il mare azzurro, sembrava essere risorta ai fasti del passato: la citta sbocciava e cresceva, austera ed elegante, offrendo ai suoi abitanti un tenore di vita sempre piu alto.

Tutto questo sino a quel maledetto maggio del 1915.

Da allora tutto era stato cancellato dal freddo dei ghiacciai e dalla minaccia di morte che incombeva costante sugli uomini impegnati al fronte.

3

Tabarqa, 1347

Gli occhi sottili di Hito Humarawa percorsero le coste rocciose dell’Ifrikyia, e volsero un ultimo saluto alla terra che lo aveva visto vincitore. Un denso pennacchio nero di fumo si innalzava sopra ai resti di Tabarqa. Il fuoco avrebbe vinto la peste e, entro poco tempo, i veneziani si sarebbero impossessati di cio che rimaneva della citta, diventandone finalmente padroni.

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