«Dovrei chiamarli e ordinarne una» dice giocoso. «Non pensi, mamma?» La stuzzica, come se avesse il telefono e potesse chiamare anche subito. «Ti piacerebbe, vero?» Sfiora l’imrnagine. «Ti piacerebbe l’urna di Edgar Allan, vero? Be’, sai cosa ti dico? Non chiamero finche non avremo qualcosa da festeggiare. Perche il lavoro non va come previsto, mamma. Si, mi hai sentito. Va un po’ a rilento, per la verita.»
Un buono a nulla, ecco che cosa sei.
«No, mamma, non sono un buono a nulla.» Scuote la testa e sfoglia il depliant. «Non ricominciamo, per favore. Siamo a Hollywood. Non e bello?»
Pensa alla villa color salmone non lontano da li, sul mare, e si sente travolgere dalle emozioni. L’ha trovata come previsto, e ci e entrato. Ma poi e andato tutto storto, e adesso non c’e niente da festeggiare.
«Tutto sbagliato, tutto sbagliato.» Si batte una mano sulla fronte, come faceva sua madre. «Non doveva andare cosi. Il pesce piccolo e fuggito.» Mima con due dita un pesce che nuota. «E ha lasciato il pesce grosso.» Mima il movimento di un pesce con entrambe le braccia. «Il pesce piccolo e andato chissa dove, non mi interessa nemmeno sapere dove. No, non mi interessa. Perche il pesce grosso e ancora li e, se io ho fatto scappare il pesce piccolo, di sicuro il pesce grosso non sara tanto contento. E come potrebbe esserlo? Fra poco festeggeremo, vedrai.»
Te lo sei lasciato sfuggire? Come hai fatto a essere tanto scemo? Non hai preso il pesce piccolo e pensi di poter prendere quello grosso? Un buono a nulla, ecco che cosa sei. Sarai veramente figlio mio?
«Non dire cosi, mamma. Non e gentile da parte tua» dice Pogue con la testa china sul depliant.
Sua madre da certe occhiate che ti fulminano. Suo padre era solito dire: “Ti fa gli occhi pelosi”. Edgar Allan Pogue non ha mai capito perche. Gli occhi non hanno peli, non si e mai visto. Lo saprebbe, lui, se esistessero occhi pelosi. Sa quasi tutto, lui. Lascia cadere il depliant sul pavimento, si alza dalla sdraio gialla e bianca e va a prendere la mazza da baseball di alluminio che tiene in un angolo, appoggiata al muro. Le veneziane dell’unica finestra del salotto sono abbassate e la stanza e immersa in una piacevole penombra, rotta soltanto dalla luce di una lampada posata per terra.
«Vediamo. Che cosa facciamo oggi?» continua, sempre tenendo la matita in bocca, rivolto a una scatola di biscotti di latta sotto la sedia a sdraio, e intanto impugna la mazza e ne controlla le stelle e strisce bianche, rosse e blu che ha ritoccato esattamente centoundici volte. La lucida amorevolmente con un fazzoletto bianco e poi si pulisce le mani nello stesso fazzoletto, ripetutamente. «Dovremmo fare qualcosa di speciale. Secondo me, dobbiamo uscire.»
Si avvicina al muro, si toglie la matita di bocca e la prende in mano, sempre tenendo la mazza con l’altra. Piega la testa da una parte e strizza gli occhi, guardando il disegno appena abbozzato appeso alla parete beige. Avvicina la punta della matita bagnata e mordicchiata al grande occhio sbarrato e infoltisce le ciglia.
«Ecco qua.» Fa un passo indietro, piega di nuovo la testa da una parte e ammira la sua creazione, un grande occhio e la linea della guancia, sempre impugnando la mazza da baseball.
«Ti ho detto che oggi sei particolarmente carina? Presto le tue guance avranno un colore stupendo e diventeranno rosse come mele mature.»
Si sistema la matita dietro l’orecchio e apre la mano davanti agli occhi, controllandone ogni nocca, piega, segno e linea, per poi esaminare con cura le unghie piccole e arrotondate. Muove le dita, guarda i muscoli che si tendono e immagina di passare la mano sulla pelle fredda, di massaggiarla per portare in superficie il sangue freddo e fermo, di palparla in maniera da infondere colore alla morte. Immagina di battere con la mazza che tiene nell’altra mano. Vorrebbe poter descrivere un arco con la mazza per colpire con violenza l’occhio appeso al muro, ma non lo fa. Non puo, non deve. Passeggia per la stanza, con il cuore che batte all’impazzata, frustrato. Troppa confusione.
L’appartamento e praticamente vuoto, ma vi regna il caos. In cucina ci sono tovaglioli, piatti di carta e posate dappertutto, scatolette e pacchi di pasta che non ha riposto nell’unico armadietto. Nel lavandino ci sono una pentola e una padella immerse in acqua ormai fredda e unta. Sulla moquette azzurra e macchiata ci sono borse, indumenti, libri, matite e fogli di carta bianca da pochi soldi. Ovunque aleggia un odore stagnante di cibo e di sigari, oltre che di sudore. Fa caldo e Pogue e nudo.
«Dovremmo vedere come sta la signora Arnette. Non e in gran forma» dice alla madre, senza guardarla. «Ti fa piacere se viene qualcuno a trovarci? Prima di tutto, lo devo chiedere a te. Potrebbe farci bene, pero. Io mi sento un po’ scombussolato, se devo dire.» Pensa al pesce piccolo che gli e sfuggito e si guarda intorno. «Una visita potrebbe essere la soluzione migliore. Cosa ne pensi?»
Si, va bene.
«Allora siamo d’accordo?» La sua voce baritonale si alza e si abbassa, il tono e quello dell’adulto che si rivolge a un bambino, o a un cane. «Ti fa piacere se la invitiamo? Bene, benissimo.»
Cammina a piedi nudi sulla moquette e si accuccia accanto a una scatola di cartone che contiene videocassette, scatole di sigari e buste piene di fotografie, tutte provviste di etichette scritte con grafia piccola e ordinata. In fondo al cartone trova la scatola di sigari della signora Arnette e una busta di Polaroid.
«Mamma, la signora Arnette e venuta a trovarci» dice in tono soddisfatto aprendo la scatola di sigari e posandola sulla sedia a sdraio. Guarda le foto e sceglie la sua preferita. «Te la ricordi, vero? Vi siete conosciute. Una vecchia signora molto simpatica. Una fata dai capelli turchini. Vedi che ha proprio i capelli turchini?»
Eh, si.
Imita la cadenza della madre, la voce strascicata che aveva dopo essersi scolata una bottiglia di vodka.
«Ti piace la sua nuova scatola?» le chiede, infilando il dito nella scatola di sigari e soffiando cenere bianca nell’aria. «Non essere gelosa, e dimagrita dall’ultima volta che l’hai vista. Chissa qual e il suo segreto» la stuzzica. Poi rimette il dito nella cenere e soffia di nuovo. Sua madre e grassissima e lui vuole farla ingelosire. Si pulisce le mani nel fazzoletto bianco. «Credo che la nostra amica stia molto bene, veramente.»
Guarda la foto della signora Arnette, la sua faccia morta e i suoi capelli bianchi dalla sfumatura azzurrina. Non si vede che ha la bocca cucita, ma lui sa che lo e perche gliel’ha suturata con le sue stesse mani. Non solo: nessuno si accorgerebbe che dietro la rotondita degli occhi ci sono due sagome, che ha sistemato lui fra le palpebre e le orbite infossate, facendole aderire con la vaselina.
«Sii gentile, chiedi alla signora Arnette come sta» dice alla scatola di latta sotto la sedia a sdraio. «Aveva il cancro. Come tanti.»
3
Il dottor Joel Marcus le rivolge un sorriso formale e Kay Scarpetta gli stringe la mano piccola e ossuta. Sa di essere prevenuta nei confronti del nuovo direttore dell’Istituto di medicina legale della Virginia, ma cerca di non lasciarsi suggestionare e di mantenersi indifferente.
E venuta a sapere di lui alcuni mesi fa, per caso, come sempre. Era in aereo, leggeva “USA Today”, e le e caduto l’occhio su un trafiletto dal titolo
Se lo avessero fatto, lei avrebbe detto di non aver mai sentito nominare il dottor Marcus. E avrebbe aggiunto, diplomaticamente, che forse l’aveva incontrato a qualche convegno, ma non lo ricordava: doveva senza dubbio essere un anatomopatologo di tutto rispetto, se era candidato a ricoprire una carica tanto importante…
Stringendogli la mano e guardandolo negli occhi, piccoli e freddi, si rende conto di non averlo mai visto prima. Il dottor Marcus non deve essere mai stato membro di nessuna commissione di rilievo e non ha mai parlato a nessun convegno a cui lei ha partecipato, altrimenti se lo ricorderebbe. A volte dimentica i nomi, ma le facce no.
«Finalmente ci conosciamo, Kay» le dice Marcus, di nuovo chiamandola per nome. Quell’uomo e veramente offensivo e, se per telefono ha cercato di fare finta di niente, li, nell’atrio del Biotech II dove un tempo regnava incontrastata, non riesce a non restarci male. Marcus e minuto, basso, con la faccia sottile e pochi capelli. Sembra minuscolo, uno gnomo. Ha una camicia bianca da quattro soldi che gli fa difetto intorno al collo, una cravatta fuori moda, pantaloni grigi sformati e un paio di mocassini. Sotto la camicia, si vede che porta una canottiera di