la firma di quel gesto e di quelli che ne sarebbero seguiti. Il terrorista a questo punto si fermo e parve avere un ripensamento.
L’Anello dei Re riluceva sul piano della scrivania sgombra e ordinata. Le dita sottili si chiusero sull’antico manufatto, ne percorsero il cerchio d’oro massiccio, si soffermarono sul sigillo appartenuto al Re dei Re.
Mancava soltanto la firma e l’Anello dei Re la incarnava in maniera unica e inequivocabile. Di nuovo le dita corsero sulla tastiera: «
Il sigillo di Salomone, re dei Giudei, colui che le Scritture descrivono come il saggio tra i saggi e il giusto tra i giusti, sarebbe diventato, da quel momento, il marchio del terrore.
Nella base di Camp Lejeune, nei pressi di Jacksonville, in North Carolina, erano impiegate circa centocinquantamila persone, tra dipendenti e militari in servizio effettivo. La zona circostante era di particolare bellezza: chilometri e chilometri di spiaggia incontaminata, e per questo eletta a riserva marina protetta, si affacciavano sull’oceano Atlantico.
Gruppi di giovani si assiepavano lungo le anse di sabbia chiara, sdraiati sotto un sole caldo o a cavallo di una tavola, pronti ad affrontare le onde dell’oceano. Molti avevano i capelli rasati e, quasi tutti, ostentavano tatuaggi fantasiosi sui fisici statuari. Non era difficile riconoscere in quei ragazzi i marine in forza alla vicina base di Camp Lejeune che frequentavano quelle stesse spiagge anche per i loro quotidiani addestramenti.
Il colonnello Deidra Curring Blasey guardo con indifferenza le reclute che si affannavano da diverse ore nella corsa, quindi entro nel capannone 24, destinato al reparto artificieri. Un sergente maggiore basso, corpulento e dai tratti marcati le si paro davanti: nell’espressione del sottufficiale si leggeva un rispetto assoluto.
«Agli ordini, signore», disse il sergente con voce stentorea.
«Riposo, sergente, riposo…» rispose il colonnello Blasey.
«Se posso permettermi un’opinione, signore…» riprese la parola il sergente.
Il colonnello non disse nulla, ma col capo invito il subalterno ad andare avanti.
«… Ci siamo, signore! Credo che tra poco dovremo controllare se nello zaino c’e tutto il necessario. Sento profumo di partenza…» L’espressione del sergente era raggiante, come quella di un bambino che si accinge a intraprendere il suo gioco preferito. E il gioco preferito del sergente Kingston era la guerra.
Deidra Blasey sorrise, mentre l’uomo la seguiva all’interno di un ufficio ricavato in un angolo del capannone 24.
Nella base di Camp Lejeune erano diverse migliaia i militari che venivano chiamati «soldati con la valigia». Si trattava di un contingente scelto, composto da marine e SEALS, sempre pronti a muovere nell’arco di due ore e in grado di restare anche per tre mesi, e in modo del tutto autosufficiente, sul luogo delle operazioni.
Il protocollo prevedeva in ogni dettaglio le attivita da svolgere nell’evenienza di una partenza improvvisa: al fine di seguire gli interessi di ogni soldato, un ufficio legale si sarebbe occupato di far fronte a tutte le quotidiane incombenze che i militari in missione erano impossibilitati a portare a termine. La moglie del comandante della base, inoltre, avrebbe indetto riunioni periodiche dove, tra un biscotto appena sfornato e un te caldo, avrebbe tenuto aggiornati i familiari dei soldati.
Deidra Blasey conosceva a memoria il protocollo: da tempo aveva perso il conto delle volte in cui era stata svegliata all’improvviso e imbarcata assieme ai suoi EOD (Explosive Ordinance Disposal), il gruppo scelto dei marine esperto in esplosivi di cui era a capo, su un mezzo militare in partenza verso una destinazione sconosciuta dove vigeva, si era appena spento o stava per accendersi, uno stato di guerra.
Fronte dolomitico, ottobre 1915
Il capitano italiano scosse la testa. Erano trascorsi diversi mesi dal 24 maggio 1915 e ogni ottimistica aspettativa sulla durata e sulla reale dimensione del conflitto si era disciolta come neve al sole. Gia… la neve… Ancora pochi giorni e le sporadiche nevicate autunnali si sarebbero trasformate in incessanti tormente gelate, che avrebbero reso difficile la vita delle migliaia di uomini assiepati nelle trincee.
Il Piccolo Lagazuoi era del tutto simile agli altri picchi dolomitici che si stagliavano, nel loro intenso colore rosato, contro il cielo terso delle Alpi. Il massiccio del Piccolo — contornato dalle cime del Sasso di Stria, Falzarego, Col dei Bos, Tofana di Rozes e Grande Lagazuoi — si ergeva proprio in corrispondenza del passo Falzarego, e dominava l’intera valle percorsa dalla statale «Allemagna», a una trentina di chilometri da Cortina e a una settantina da Belluno.
Gli austriaci avevano costruito una serie di postazioni sulle pendici del Piccolo Lagazuoi: nella fascia che andava dai duemilatrecento ai duemilasettecento metri di altitudine gli austroungarici erano appostati all’interno di gallerie e trincee dalle quali tenevano facilmente in scacco le forze italiane.
«Riepiloghiamo, tenente Cassali», disse il capitano Sciarra. «Voi, al comando del vostro plotone, lascerete l’accampamento nella serata del 17. Con voi si muoveranno altri due reparti di alpini, provenienti da altre compagnie. Io assumero il comando delle operazioni. I tre drappelli risaliranno i canaloni del passo Falzarego, arrampicandosi sulla parete orientale del Lagazuoi. Dobbiamo cacciare gli austriaci dalle loro postazioni e impossessarcene.»
Il tenente Cassali annui in silenzio. Il capitano osservo gli occhi del giovane sottoposto: quel ragazzo, che proveniva da una famiglia borghese del Nord Italia, si comportava come un vero uomo, sebbene non avesse piu di vent’anni.
Gli occhi azzurri del tenente sembravano cercare, in quelli del suo capitano, il coraggio che sarebbe stato necessario per balzare fuori dalla trincea e combattere corpo a corpo contro gli austriaci.
Alberto Sciarra parve accorgersi dello sguardo simile a quello di un cucciolo in attesa di una carezza. Cosi sorrise, appoggio una mano sulla spalla del giovane ufficiale e disse: «Che Dio ce la mandi buona, tenente».
L’attacco fu preceduto da un nutrito bombardamento d’artiglieria.
Gli austriaci era come se fossero scomparsi dalle prime linee, mentre le granate cadevano quasi senza soluzione di continuita.
«Non vi illudete», disse Sciarra ai suoi in un momento di tregua, «i nemici si sono ritirati all’interno delle loro gallerie e balzeranno fuori non appena finira il bombardamento.»
L’ufficiale non si sbagliava: il grosso delle truppe nemiche era al riparo nei cunicoli che si addentravano nelle profondita delle rocce. Per isolare dal freddo gli angusti rifugi, i soldati erano soliti rivestire con del legno le pareti rocciose, usando come intercapedine alcuni fogli di carta impregnata di catrame. Rispetto ai disagi delle trincee, i ricoveri offerti dalle gallerie apparivano come la piu sfarzosa e accogliente delle magioni.
Le opere di scavo sarebbero diventate l’arma decisiva per le sorti di quella guerra senza fine. E i cunicoli, aperti con fatica sotto le postazioni nemiche, avrebbero dato vita a quella che sarebbe stata definita una «guerra di mina» senza precedenti.
Il tenente Cassali si alzo con la pistola d’ordinanza in pugno. Il silenzio delle vette si adagiava sulla scena palpabile come un sudario.
I fanti uscirono allo scoperto imbracciando i moschetti sui quali avevano innestato le baionette. Una nebbia leggera, in quella mattina del 18 ottobre 1915, rendeva ancor piu irreali i preparativi dell’assalto.
L’urlo di battaglia si levo alto non appena i comandanti di plotone ordinarono la carica, e ruppe il silenzio che aveva avvolto le vette.
Il capitano Alberto Sciarra stava al centro della compagnia, armi alla mano.
I militari italiani non fecero che qualche passo, poi un inferno di fuoco si scateno contro di loro, erigendo una muraglia invalicabile tra gli alpini e le truppe austriache.
«Lasciate che mi complimenti con voi, capitano Sciarra», aveva detto il colonnello Cantini, entrando nell’ospedale da campo.
Il capitano si era alzato dal capezzale del suo sottoposto e per pochi istanti aveva abbandonato la mano del