– La mancia che le ha dato Steelgrave per avergli permesso di assassinarle il fratello.
Vi fu una pausa di silenzio, poi Dolores disse, gravemente:
– Non potete sapere una cosa simile, amigo.
– Lo so, come so che sono seduto alla scrivania, col telefono in mano.
Come so che sto ascoltando la vostra voce. E, non con la stessa certezza matematica, ma con un buon margine di certezza, come so chi ha ucciso Steelgrave.
– Siete un po' sciocco a dirmi tutto questo, amigo. Non sono perfetta.
Non dovreste fidarvi troppo di me.
– Ogni tanto commetto qualche errore, ma questa volta non e il caso.
Ho bruciato tutte le fotografie. Avevo cercato di venderle a Orfamay, ma non mi ha offerto abbastanza.
– Volete scherzare, amigo.
Lungo il filo arrivo la sua risata argentina, tintinnante.
– Vi farebbe piacere condurmi a colazione, amigo?
– Puo darsi. Siete a casa vostra?
– Si.
– Vi raggiungero tra poco.
– Sara un piacere immenso, per me. – Deposi il ricevitore.
La commedia era terminata. Ero seduto in un teatro vuoto. Il sipario era calato su di esso, un po' indistinta potevo vedere riproiettarsi l'azione scenica. Ma gia alcuni attori stavano diventando vaghi e irreali. La sorellina, soprattutto. Di li a un paio di giorni non avrei ricordato piu che faccia aveva. Perche, in un certo senso era davvero una creatura irreale. L'immaginai che se ne tornava a Manhattan, Kansas dalla cara vecchia mamma con i suoi mille bei dollarini, pingui croccanti e nuovi nella borsetta. Erano state assassinate alcune persone, perche lei potesse averli, ma ero certo che quel pensiero non l'avrebbe disturbata per molto tempo. L'immaginai la mattina, che se ne andava in ufficio allo studio del… come si chiamava, quel tizio?
Ah, si, dottor Zugsmith… e spolverava la scrivania del principale, prima che arrivasse, e riordinava le riviste in sala d'aspetto. Avrebbe portato gli occhiali senza montatura, e un abito liscissimo; sul viso non avrebbe avuto un'ombra di trucco e il suo contegno coi pazienti sarebbe stato d'una correttezza estrema.
– Il dottor Zugsmith puo ricevervi, ora, signora Chissachi.
Avrebbe tenuto la porta aperta, con un sorrisetto, la signora Chissachi le sarebbe passata davanti e il dottor Zugsmith in camice bianco sarebbe stato seduto, dietro la sua scrivania, con un'aria incredibilmente dottorale e lo stetoscopio appeso al collo. Di fronte a lui ci sarebbe stato uno schedario di cartelle anamnesiche, e il taccuino per le annotazioni e il ricettario, sarebbero stati ordinatamente disposti a portata di mano. Non c'e nulla che il dottor Zugsmith non sappia. Non lo si puo ingannare. Ha tutto sulla punta delle dita. Quando guarda un paziente conosce gia tutte le risposte alle domande che gli rivolgera, per pura questione di forma.
E quando il Signor Dottore guardava la sua ricevitrice, la signorina Orfamay Quest, vedeva una giovane beneducata e tranquilla, vestita con la proprieta consona allo studio di un medico. Niente unghie scarlatte, niente trucco violento, niente che potesse urtare i pazienti all'antica. Una ricevitrice ideale, la signorina Quest.
Quando gli capitava di pensare a lei il dottor Zugsmith ci pensava con intima soddisfazione. Era stato lui a farne quello che era. Era proprio quel che il dottore aveva ordinato.
Molto probabilmente non aveva ancora tentato di portarla a letto. Forse, nelle cittadine, queste cose non si fanno. Ah ah! Io sono cresciuto in una cittadina.
Cambiai posizione, guardai l'orologio e tirai fuori la bottiglia di Old Forrester dal cassetto. La fiutai. Aveva un buon odore. Me ne versai una dose robusta e alzai il bicchiere in controluce.
– Ebbene, dottor Zugsmith – dissi ad alta voce, proprio come se lui fosse stato seduto all'altro capo della scrivania, con un bicchiere in mano.
– Io non vi conosco molto bene, e voi non mi conoscete affatto. Di solito io non credo che serva dar consigli agli estranei, ma ho fatto un breve corso intensivo sul tema Orfamay Quest e contravvengo alla regola. Se mai quella ragazzina vuole qualcosa, una cosa qualsiasi, da voi, dategliela, e alla svelta. Non menate il can per l'aia, non vi lagnate della tassa sul reddito e delle spese generali. Sfoderate il vostro piu bel sorriso e sganciate. Non vi impegolate in una discussione intorno a chi ha diritto di possedere questo o quello. Tenete di buon umore la ragazzina: questo e l'importante.
Buona fortuna a voi, dottore, e non lasciate in giro bisturi in ufficio.
Bevvi meta del mio cicchetto e aspettai che mi riscaldasse. Quando fece effetto bevvi l'altra meta e riposi la bottiglia.
Vuotai la pipa dalla cenere ormai fredda e tornai a riempirla prendendo il tabacco da un recipiente di cuoio che mi era stato regalato per Natale da un ammiratore. Un ammiratore che, per strana coincidenza, portava il mio stesso nome e cognome.
Quando ebbi riempito la pipa, l'accesi con cura, prendendomela comoda, poi uscii e m'incamminai lungo il corridoio vispo come un inglese di ritorno da una partita di caccia alla tigre.
CAPITOLO XXXIII
Il Chateau Bercy era un palazzo vecchio rimodernato. Aveva il tipo di vestibolo che richiede velluti rossi e dorature e ottiene vetrocemento, luci diffuse e tavolini triangolari di cristallo; e in complesso ha l'aria d'essere stato decorato da un evaso dal manicomio. I colori dominanti erano verdebile, marrone-impiastro-di-lino, grigio- marciapiedi e blu-sedere-discimmia. Era riposante come un'unghia incarnata.
La piccola scrivania all'ingresso era vuota, ma lo specchio dietro di essa poteva essere trasparente, percio non tentai di sgattaiolare su per le scale.
Suonai il campanello e un uomo corpulento e molliccio comparve da dietro un muro e mi sorrise con le labbra umide e morbide, i denti biancoazzurrastri e gli occhi che luccicavano in maniera innaturale.
– La signorina Gonzales – dissi. – Mi chiamo Marlowe. La signorina mi aspetta.
– Ma certo, si, naturalmente, – garri il ciccione agitando le mani come un frullo d'ali. – Si, naturalmente. Le telefono subito.
Anche la voce, pareva un frullo d'ali. L'uomo prese il ricevitore del telefono, vi gorgoglio dentro e lo mise giu.
– Si, signor Marlowe. La signorina Gonzales dice che andiate subito su.
Appartamento dodici, quarto piano. – Diede una risatina da scolaretta. – Ma immagino che lo sappiate.
– Lo so adesso – ribattei. – Oh, tra parentesi, eravate qui, nel febbraio scorso?
– Nel febbraio scorso? Nel febbraio… Oh, si. Ero qui, nel febbraio scorso. – La sua pronuncia era meticolosa, come un manuale di fonetica.
– Ricordate la sera in cui han fatto fuori Stein, qui di fronte?
Il sorriso spari, a precipizio.
– Siete un ufficiale di polizia? – La voce era sottile e flebile, ora.
– No. Ma avete i pantaloni aperti, se ci tenete a saperlo.
Lui guardo giu, inorridito e chiuse la cerniera con le mani che quasi gli tremavano.
– Oh, grazie – balbetto. – grazie. – Si chino sopra la piccola scrivania. – Non e successo proprio qui davanti – disse. – Non esattamente. E stato quasi all'angolo della via.
– Abitava qui, vero?
– Preferirei proprio non parlarne. Sinceramente, preferirei non parlarne.
– Tacque e si passo la lingua sul labbro inferiore. – Perche queste domande?
– Cosi, tanto per farvi parlare. Dovete starci piu attento, amico. Vi si sente nel fiato.
Divenne tutto rosa, fino al collo.
– Se insinuate che abbia bevuto…
– Solo te – risposi. – E non in infusione.
Mi allontanai. Lui non aperse bocca. Quando arrivai all'ascensore mi voltai a guardare. Era in piedi con le mani piatte sulla scrivania e il collo torto indietro, per guardarmi. Anche da quella distanza pareva che tremasse.