illuminare il fondo marino… ecco, come dico, per qualche istante fui troppo furioso per pensare con chiarezza. Il mio lavoro mi ha portato a contatto con gente poco preoccupata per l’energia, con gente che la rubava, e persino con gente che l’usava male: ma quella era una prospettiva del tutto nuova! Adesso ero sceso ancora di piu, e vedevo ettari ed ettari di luce che si estendevano verso nord, est ed ovest, fino a perdita d’occhio. Ettari ed ettari illuminati da cose sospese a pochi metri dal fondo piatto, cose visibili soltanto come punti neri al centro di aree leggermente piu vivide. Se non altro, chi era responsabile di quella prodezza un po’ di senso dell’economia ce l’aveva: si serviva di riflettori.
Poi controllai l’indignazione: o fu la paura a farlo. Mi resi conto all’improvviso di trovarmi una dozzina di metri soltanto al di sopra delle luci. Non sarei sceso in mezzo ad esse, ma un poco piu a sud. Non potevo dire «a sud, al sicuro». Non potevo dire «al sicuro», perche la combinazione formata dalla prua della Pugnose e dalla mia capsula girava abbastanza lentamente da consentirmi di prevedere l’assetto in cui avrebbe toccato il fondo, ed era certo che l’estremita aperta dello scafo sarebbe finita in basso.
A parte il fatto che, stando sotto il relitto, non avrei potuto vedere nulla, era molto probabile che non avrei potuto neppure fare nient’altro… per esempio, risalire alla superficie. Questa volta afferrai i comandi.
Poiche il problema della mimetizzazione era fondamentale, i separatori utilizzavano molle, anziche cariche esplosive. Attesi che la rotazione portasse lo scafo tra me e la luce, e premetti il pulsante. La spinta fu cosi leggera da indurmi a chiedermi, per qualche secondo, se non mi sarei cacciato in un guaio anche peggiore. Poi la luce comincio a filtrare dagli oblo che prima erano coperti dallo scafo, e quella preoccupazione fini. Le molle avevano allontanato la capsula dalla regione illuminata, e cosi potevo vedere la prua della Pugnose profilata contro la luminescenza. La separazione aveva rallentato leggermente la mia caduta, mentre il relitto era un po’ piu veloce di me, adesso. Qualcosa, se non altro, andava secondo i piani: il relitto avrebbe toccato fondo per primo, e non avrei corso il rischio di restarci intrappolato sotto.
Naturalmente, non avevo previsto di vederlo toccare il fondale. E certo non mi sarei mai aspettato di vedere cio che accadde quando lo tocco.
In generale, le distese pianeggianti del fondo marino tendono ad essere piuttosto viscide. Lo chiamano fango di globigerine o fango di radiolari, ma comunque e fango. Potete trovare coralli e sabbia ed altra roba compatta nelle acque poco profonde, e talvolta oneste rocce sui pendii, ma dove il fondale e pianeggiante, dovete aspettarvi un incrocio tra una normale fanghiglia e lo strato superiore di uno stagno. Quando vi cade qualcosa di duro e pesante, anche se scende dolcemente, non potete aspettarvi che il fondo lo regga bene. Qualche volta potete avere delle sorprese, ma non potete mai aspettarvi che qualcosa rimbalzi sul fondo marino.
La Pugnose non rimbalzo, questo debbo ammetterlo, ma di certo non si comporto come doveva. Urto la superficie illuminata a trenta o quaranta metri dal bordo, e ad una distanza circa doppia da me. Potei vedere bene. Tocco il fondale, come avevo previsto; e affondo, come avevo previsto. Non ci fu un vortice di sedimenti, pero… nessun segno dello spruzzo al rallentatore che si vede normalmente quando qualcosa finisce nella fanghiglia. La sezione di prua, invece, spari quasi completamente nella superficie liscia, mentre attorno ad essa si formava un’increspatura circolare che si dilato allontanandosi dal punto dell’impatto. Poi il relitto si risollevo dolcemente, fino a rimanere scoperto per meta, e poi riaffondo di nuovo, sempre al rallentatore. Oscillo in quel modo per tre o quattro volte, prima di restare immobile, e ad ogni sobbalzo mando un’altra increspatura a diffondersi intorno per una dozzina di metri.
Quando il relitto si fermo, si fermo anche la mia capsula. La sentii urtare contro qualcosa di duro… roccia, ci avrei scommesso con la certezza di vincere. Poi comincio a rotolare molto, molto dolcemente, verso la luce. Non potevo vedere chiaramente la superficie su cui mi trovavo, ma mi sembrava evidente: si trattava di un solido pendio, che mi avrebbe scaricato accanto alla Pugnose entro due o tre minuti, se non avessi fatto qualcosa per evitarlo. Per fortuna, qualcosa potevo fare.
La capsula aveva quelle che noi chiamavamo gambe, supporti telescopici lunghi circa due metri, metallici, che si potevano estroflettere per mezzo di molle e far rientrare per mezzo di solenoidi. Speravo ancora di non dover usare i magneti: ma sembrava che le gambe fossero in ordine: ne feci uscire quattro in quelle che mi auguravo fossero le direzioni giuste. Comunque, il rotolio cesso, e per la prima volta mi trovai a disporre di una piattaforma d’osservazione stabile. Naturalmente, concentrai la mia attenzione sull’area che potevo vedere.
Mi trovavo al di sotto del livello delle luci. Sembravano appese in molte file, ad intervalli di circa venti metri, con la stessa spaziatura fra una fila e l’altra. Era solo un’ipotesi, pero, perche in realta non vedevo alcun supporto. La disposizione regolare confermava la mia impressione, ma il fatto che il relitto fosse sceso piu o meno esattamente fra due luci senza conseguenze sembrava invece smentirla. Non mi stupii troppo nel vedere che sulla superficie piatta e illuminata non cresceva e non si muoveva nulla, anche se, naturalmente, non sarei stato sorpreso se avessi visto intorno tracce o aperture.
O almeno, non ne sarei rimasto sorpreso se non avessi visto l’arrivo della Pugnose. Ma adesso era chiaro che, qualsiasi cosa stessi vedendo, non si trattava certamente del fondo marino. Sembrava piuttosto un telo di gomma, teso come un tetto di tenda sopra tutto quanto, circa tre metri piu in basso del punto del pendio su cui mi ero fermato. Il relitto l’aveva ammaccato, ma non perforato, e quella sostanza era abbastanza resistente per reggere un peso relativamente ridotto di metallo e di plastica.
Questo poteva essermi utile, pensai. Non immaginavo perche mai chi stava sotto la tenda ci tenesse ad illuminare l’esterno; ma a meno che quel materiale fosse completamente opaco, quelli laggiu non avrebbero potuto fare a meno di vedere l’ombra e l’ammaccatura sul tetto. Avrebbero mandato qualcuno a indagare, e io avrei potuto vederli facilmente senza accendere i riflettori e senza tradire la mia presenza. Mi bastava soltanto scorgere chiaramente degli esseri umani non autorizzati sul fondo del Pacifico: questo fatto, piu l’enorme spreco di energia che gia potevo calcolare, sarebbe stato sufficiente per il mio rapporto… al resto avrebbe provveduto una grande spedizione di controllo. Nessuno pretendeva che io arrestassi un gruppo di individui abbastanza numeroso per creare un’installazione di quel genere, e non nutrivo ambizioni del genere. Per dirla chiaramente, la capsula non era abbastanza manovrabile per fungere da auto della polizia: io non ero in grado di arrestare neppure un gambero. Mi bastava soltanto di vedere un sommergibile, o uno scafandro corazzato, o anche un robot telecomandato… qualunque cosa dimostrasse che quell’impianto era organizzato e in attivita. Mi sarebbe bastata un’occhiata, e avrei sganciato la zavorra.
Non sarei risalito troppo in fretta, naturalmente, e per due ottime ragioni. Un addetto al sonar, logicamente, non avrebbe fatto molto caso ad un oggetto che affondava, pensando che si trattasse di un relitto, o magari di una balena morta, e non avrebbe provato troppa curiosita. Ma era molto improbabile che sentisse la stessa indifferenza verso un oggetto che risaliva. Dovevo tener conto del pericolo rappresentato dal sonar. Era consolante che finora non ve ne fosse traccia: ma non era conclusivo.
L’altra ragione che mi dissuadeva dall’affrettarmi non la conoscevo ancora, e la scopersi soltanto diverse ore piu tardi.
Io non sono il tipo che tiene sempre gli occhi sull’orologio. Sapevo di avere un ampio margine di sopravvivenza, dentro la capsula, e non tenevo conto scrupolosamente del tempo che era passato. Quando la seconda ragione divenne evidente, non pensai mai di controllare il tempo, e per diverse ore ebbi altro da fare che badare all’orologio. Non saprei dire, quindi, per quanto tempo restai seduto nella capsula, in attesa che succedesse qualcosa. Posso affermare che furono diverse ore: abbastanza da annoiarmi, irritarmi, e convincermi, quasi, che non c’era nessuno nelle vicinanze, sotto quel tetto. L’idea che si trattasse di qualcuno del tutto disinteressato a un pezzo di nave finito sul tetto era troppo assurda perche valesse la pena di prenderla in considerazione: se qualcuno l’avesse visto, certamente avrebbe deciso di prendere qualche provvedimento.
Nessuno aveva fatto niente. Percio, non si vedeva nessuno. E se sotto quella specie di telone non c’era nessuno in vista, tanto valeva che andassi io a dare un’occhiata da vicino. Forse avrei potuto anche dare una sbirciatina al di sotto.
Un’idea pericolosa, ragazzo. Non permettere che tutti quei kilowatt sprecati ti diano alla testa. Tu sei soltanto un occhio: se non torni indietro a portare le informazioni, tutto quello che riuscirai a fare sara puro spreco… e «spreco», naturalmente, e la bestemmia piu oscena per il Consiglio di Amministrazione.
Comunque, la tentazione era forte. Nessun movimento… nessun segno di vita umana, tranne le luci e il telo da tenda, e pochissimi segni di vita non umana. Niente suoni. Niente sul monitor della frequenza del sonar. Perche non dovevo rotolare dolcemente fino all’orlo del telone e studiarlo piu da vicino?
La risposta migliore a questa domanda, naturalmente, era che si sarebbe trattato di un’idiozia. Ma via via che il tempo passava, mi venne in mente un paio di volte che limitarmi a star li non significava dar prova del livello piu elevato dell’intelligenza umana. Se dovevo comportarmi da sciocco, tanto valeva che lo facessi sul serio. Non so da dove possa scaturire un ragionamento del genere; forse dovrei rivolgermi veramente a uno psichiatra.
Non so esattamente quanto arrivassi vicino a cedere all’impulso. So che per tre volte allungai la mano per far rientrare le gambe telescopiche e che ogni volta cambiai idea.
La prima volta, a trattenermi fu la vista di qualcosa che si muoveva: poi scoprii che era uno squalo piuttosto grosso. Era il primo essere vivente di una certa grandezza che vedevo da quando avevo raggiunto il fondo, e per un po’ avvio i miei pensieri su di un’altra tangente. Le altre due volte che mi accinsi a far muovere la capsula, venni trattenuto del ricordo dello squalo. Era sparito… aveva udito qualcosa che io non potevo sentire, e si era spaventato? Non avevo strumenti all’esterno per scoprire le frequenze piu basse e quelle udibili: c’erano soltanto i ricettori del sonar.
So che tutto questo non mi fa apparire come un genio, e neanche come un operatore competente. Vorrei avere avuto un po’ piu di tempo a disposizione per rivedere un po’ i miei ricordi, prima di dover raccontare questa storia. Per giustificare la decisione che presi, prima dovrei avere una possibilita di apparire come un adulto ragionevole. Tutto quello che posso dire a mia difesa, sul momento, e una di quelle frasi tipo «vediamo, vediamo se voi sapete fare di meglio.» Sapete esattamente cio che avreste pensato voi, se vi foste trovati praticamente impotenti in una sfera di plastica di due metri, sul fondo dell’oceano, ad una profondita di un miglio? Se non lo sapete, allora, per favore, prima di criticarmi aspettate che io abbia finito.
Finalmente apparve la seconda ragione per non scaricare troppo in fretta la zavorra. La mia attenzione era ancora concentrata sul relitto, percio non la vidi sopraggiungere. La scorsi per la prima volta con la coda dell’occhio, e per un istante pensai che fosse un altro squalo: poi mi resi conto che si trattava invece di un essere umano, ed ebbi la prova che cercavo. Benissimo. Non appena fosse scomparso, avrei potuto risalire verso la superficie.
Impossibile. Avevo bisogno di una prova convincente, e se i miei occhi non bastavano a convincere me, era molto improbabile che le mie parole avrebbero potuto convincere qualcun altro. Quel che vedevo era una persona, e fin qui tutto bene; uno scafandro corazzato da dieci centimetri, adeguatamente fornito di energia, per sopportare la pressione di una tonnellata e un quarto per pollice quadrato che esercita l’acqua marina alla profondita di un miglio. Un’armatura di quel genere lascia a chi la porta l’aspetto di un essere umano e gli permette di muoversi, camminando a passo molto goffo.
Tuttavia, a meno che quell’individuo sia immerso in un oceano di mercurio, non gli permette di nuotare: e invece quella figura chiaramente umana stava nuotando.
Comparve in lontananza, sulla mia sinistra, e entro nella luce all’improvviso, come se fosse discesa dall’oscurita sovrastante. Nuotava verso di me ed il relitto, ma senza troppa fretta. Quando si avvicino, i dettagli risultarono piu nitidi: e il piu evidente di tutti, ancora piu del fatto che era una femmina, era che non portava affatto uno scafandro corazzato. Indossava una muta da sommozzatore per acque fredde, assolutamente normale, a parte il fatto che al posto della maschera del respiratore aveva un casco trasparente e sferico, e la zavorra sembrava distribuita qua e la in cerchi, intorno al corpo ed agli arti, invece di essere fissata alla cintura. Ripeto — anzi, dovetti ripeterlo a me stesso parecchie volte — che non si trattava affatto di uno scafandro corazzato. I movimenti con cui la donna nuotava mostravano chiaramente che era flessibile quanto la pelle, proprio come deve essere una muta da sommozzatore.
Sembrava non aver notato la mia capsula, e questo mi diede un senso di sollievo. Non mostro neppure di aver visto il relitto fino a quando fu arrivata ad una ventina di metri di distanza. Nuotava molto lentamente lungo il bordo del tetto, con l’aria tranquilla di chi sta facendo una passeggiata pomeridiana. Poi, arrivata a quel punto, cambio direzione e si avvio verso la prua della Pugnose.
Questo non quadrava affatto. Chiunque fosse laggiu avrebbe dovuto andare in cerca di quel relitto, non certo trovarlo per caso. Io mi ero aspettato che arrivasse una squadra intera.
Bene, sono parecchie le cose che non avevo previsto, in quella storia. «Finiscila con le ipotesi operative, fratello: non hai i dati sufficienti neppure per questo, ancora. Limitati ad osservare», (mi rivolsi a me stesso senza chiamarmi neppure per nome).
Percio osservai. La osservai mentre girava a nuoto intorno alla prua sfondata, vi entrava e ne usciva, e le passava sopra. Poi la vidi sganciare un oggetto che risulto una lampada, e che teneva agganciato alla cintura, ed entrare di nuovo nel relitto. Questo mi preoccupo un poco: il camuffamento della capsula non era stato realizzato per reggere ad un’ispezione del genere. Le morse, le molle di sganciamento…
Lei usci di nuovo, senza mostrarsi piu emozionata di prima, ed a questo punto mi resi conto di un’altra cosa. Era ben poco importante, rispetto a quello che avevo gia visto… o almeno, mi parve poco importante nel momento in cui lo notai; ma quando ci pensai sopra, divento un grosso enigma.
Come ho detto, la muta era perfettamente normale, a parte il casco e la zavorra. Era cosi normale che aveva addirittura una piccola bombola tra le spalle, l’estremita superiore toccava il casco, e presumibilmente era collegato ad esso, sebbene io non vedessi i tubi. Tutto questo era logico e ragionevole; la nota stridente stava nel fatto che non c’erano bolle.
Ora, io conosco i sistemi di respirazione a circuito, conosco le scorte chimiche… miscugli di perossidi e superossidi di metalli alcalini che reagiscono con l’acqua liberando ossigeno e assorbendo anidride carbonica. Li conosco abbastanza bene per sapere che debbono avere, oltre al contenitore delle sostanze chimiche e all’impianto di miscelatura, una sorta di «polmone»: un serbatoio a volume variabile ed a pressione ambientale, con le sostanze chimiche sistemate tra questo e i polmoni del sommozzatore. Il gas esalato deve andare pure da qualche parte, fino a quando e pronto per essere inalato di nuovo. Il «polmone» deve avere un volume abbastanza grande per contenere tutta l’aria che un sommozzatore puo esalare con un respiro… in altre parole, deve avere un volume