nell’intestino; non nell’inguine; non nel torace. Nella mente. Il corpo gia marcisce mentre ancora il proprietario lo indossa; la mente che contiene s’innalza alle piu remote galassie.
— Massaggio! — latro Krug.
Il timbro con cui aveva dato l’ordine fece uscire dalla parete una tavola liscia e vibrante. Nella stanza entrarono tre androidi femmina, sempre pronte nell’eventualita di un richiamo. Flessuose, nude, le androidi erano tre comuni modelli gamma: salvo le solite piccole differenze somatiche (programmate di routine) sarebbero parse gemelle. Avevano seno piccolo, alto, e ventre piatto; lunghe le cosce, piene le natiche. I capelli e le sopracciglia, contrastando con tutto il resto dell’epidermide, che era glabro, conferivano loro una certa espressione asessuata, anche se portavano il solco del sesso, chiaro e inconfondibile, iscritto tra le cosce: se gliene fosse venuto il gusto, Krug avrebbe potuto separarle e trovare al loro interno una convincente imitazione della passione. Quel gusto non gli era mai venuto, ma aveva voluto inserire ugualmente un elemento di sensualita nel progetto dei suoi androidi. Aveva dato alle sue creature organi genitali perfettamente funzionali (pur se sterili) per lo stesso motivo cui aveva dato loro un normale ombelico (assolutamente superfluo). Voleva che le sue creature avessero aspetto umano (salvo le differenze indispensabili) e che potessero compiere quasi tutte le funzioni compiute dagli esseri umani. I suoi androidi non dovevano essere dei robot. Aveva deciso di creare degli esseri umani sintetici, non delle semplici macchine.
Le tre gamma lo svestirono con competenza e presero a massaggiarlo con mani addestrate: solerti e instancabili, gli scioglievano la carne e gli ridavano tono ai muscoli. Intanto Krug, prono sull’asse, fissava il vuoto dell’ufficio e le immagini sulla parete opposta.
Era un ambiente arredato con semplicita, quasi spartano. Solo un lungo rettangolo che comprendeva la scrivania, un terminale, una piccola scultura scura e un tendaggio nero che, sfiorando il pulsante del depolarizzatore, mostrava il panorama di New York, giu in basso. L’illuminazione indiretta e smorzata stendeva sull’ufficio un crepuscolo perpetuo. L’unica macchia di luce era un disegno, luminescente, giallo vivo, che brillava da una parete:
Era il messaggio delle stelle.
Inizialmente, l’osservatorio di Vargas lo aveva raccolto come una serie di deboli impulsi radio a 9100 megacicli: due rapidi bit, pausa, quattro bit, pausa e cosi via. La configurazione si era ripetuta mille volte nei due giorni successivi, e poi era cessata. Un mese dopo, era comparsa a 1421 megacicli (la frequenza 21 cm dell’idrogeno), ripetendosi altre mille volte. Un altro mese ancora, ed era riapparsa a due distinte frequenze: quella meta e quella doppia della precedente mille volte ciascuna. E successivamente Vargas l’aveva scoperta nella banda delle frequenze ottiche, trasmessa con un intenso fascio laser a 5000 angstrom. E la configurazione era sempre rimasta la stessa; un grappolo di brevi impulsi informativi: 2…4…1…2…5…1…3…1. Ogni sottogruppo di bit era separato dall’altro per mezzo di un’interruzione perfettamente rilevabile; una pausa piu lunga separava ogni ripetizione del gruppo di impulsi.
Non poteva trattarsi che di un messaggio. Per Krug la sequenza 2-4-1-2-5-1-3-1 era divenuta un numero sacro: il primo simbolo di una nuova Cabala. Non solo se n’era imblasonato la parete dell’ufficio: poteva farsi sussurrare a comando la registrazione del segnale delle stelle, su diverse frequenze acustiche, e, inoltre, la scultura a fianco della scrivania era stata predisposta per emettere tutta la sequenza con pulsazioni abbaglianti di luce coerente.
Quel segnale era la sua ossessione. Tutto il suo universo faceva perno su quella domanda in attesa di risposta. Di notte levava gli occhi alle stelle, si faceva stordire dal loro allucciolio e lanciava lo sguardo alle galassie, pensando: “Sono Krug. Sono io, Krug! Sono qui che aspetto. Parlatemi ancora!”. Era sicurissimo che il segnale delle stelle fosse un tentativo cosciente di comunicazione: l’altra possibilita non voleva neppure prenderla in considerazione. E aveva dedicato tutta la sua immensa fortuna al compito di rispondere.
“Non e possibile che il segnale sia un fenomeno naturale?”
“E che significato possono avere quei numeri? Sono una specie di pi greco della Galassia?”
“Non vedo lo scopo di un messaggio senza un contenuto comprensibile.”
“Sempre che lei abbia ragione, cosa conta di dire, come risposta?”
“E con quale linguaggio conta di dirglielo?”
“E come glielo dira? Con il laser? Con le onde radio?”
Sul tavolo del massaggio, Krug rabbrividi. Le androidi lo artigliavano, lo percuotevano, gli affondavano le nocche nei muscoli massicci. Che fosse il loro modo d’imprimergli nelle ossa quei numeri arcani? 2-4-1, 2-5-1, 3-1. E dov’era finito quel 2 che mancava? E se anche fosse stato trasmesso, che cosa poteva significare la sequenza 2-4- 1, 2-5-1, 2-3-1? Niente. Numeri casuali. Un gruppetto insensato d’informazione non decodificata. Nient’altro che numeri, disposti in configurazioni astratte, ma che portavano il piu importante messaggio dell’universo:
E Krug intendeva rispondere. Provava una scossa di piacere quando pensava alla torre completa, al fascio tachionico che si riversava nella galassia. Sarebbe stato Krug a rispondere. L’avido Krug, l’affarista Krug, quel bifolco di Krug, quell’affamato di soldi di Krug, Krug il semplice industriale, Krug l’ignorante, Krug il grassone, Krug lo zotico. Io! Krug! Krug!
— Via! — ringhio alle androidi. — Basta!
Le ragazze si allontanarono subito. Krug si alzo, si rivesti lentamente, attraverso la stanza e passo le mani sulle luci gialle della parete.
— Ci sono comunicazioni? — chiese. — Visite?
Sfarfallando sull’invisibile schermo di sodio vaporizzato, comparvero a mezz’aria le fattezze di Leon Spaulding: testa e spalle. — C’e il professor Vargas — annuncio l’ectogeno. — L’aspetta nel planetarium. Gli annuncio il suo arrivo?
— Certo: salgo subito da lui. E Quenelle?
— E in Uganda, alla villa del lago. Ha detto che l’aspetta li.
— Mio figlio?
— E andato alla fabbrica di Duluth; quell’ispezione. Devo comunicargli qualcosa?
— No, grazie — disse Krug. — Mio figlio sa benissimo il da farsi. Vado subito da Vargas.
L’immagine di Spaulding svani; Krug si diresse al suo ascensore personale e sali rapidamente alla cupola del planetarium, sul tetto del grattacielo. Sotto la volta ramata, la figura sottile e assorta di Niccolo Vargas passeggiava tra una vetrinetta alla sinistra (contenente otto chili di proteinoidi d’Alfa Centauri V) e un tozzo criostato alla destra (nel cui gelido interno oscillavano trenta litri di metano liquido: souvenir dei mari di Plutone).
Vargas era un ometto minuto e bianchiccio, ma aveva una personalita foltissima. Nei suoi riguardi, Krug nutriva un rispetto che sfiorava la soggezione: ecco un uomo che, fin dalla giovinezza, ha dedicato ogni giorno, ogni