signor maggiore. Sono venuto in Italia quando avevo pochi mesi e mi sento di appartenere alla vostra gente. Non prendete questa mia affermazione come disfattista, signore, ma non credo che la Romania potrebbe resistere piu di pochi mesi a un eventuale attacco austroungarico. E questo per una serie di motivi che vanno dalla sua posizione geografica nel bel mezzo delle nazioni nemiche alla scarsa efficienza del suo esercito e, non ultimo, al carattere non aggressivo dei suoi abitanti.»

La pacata linearita di questo discorso fece si che la prima impressione del maggiore riguardo al suo subalterno fosse positiva.

Forse avrebbe trovato nel giovane tenente rumeno un valido appoggio.

«Conoscete l’uso delle mine, tenente?» chiese il maggiore.

«Sono abbastanza esperto di esplosivi, signore. A essere sincero non ho eccessive conoscenze di gallerie e di scavi, ma posso sempre imparare.»

«Bene, tenente Petru, ritengo sia il caso che uno dei nostri sottufficiali vi affianchi per rendervi edotto dei segreti della guerra di mina. Vi sara molto utile.»

Erano trascorsi diversi mesi da quel primo incontro. Il tenente Minhea Petru si dimostrava di giorno in giorno un ufficiale valido, attento, e un ottimo combattente. Anche quando la Romania era scesa in guerra a fianco degli alleati, nell’agosto del 1916, l’ufficiale era rimasto fedele alla promessa fatta di non richiedere il trasferimento. E le parole che il sottoposto aveva rivolto allora al maggiore erano state profetiche: esattamente sei mesi dopo la dichiarazione di guerra all’impero austroungarico la Romania era stata invasa dall’esercito nemico.

Le gallerie di mina erano simili a un labirinto che si dipanava nelle viscere delle montagne dolomitiche. Dovevano servire a raggiungere, scavando nel cuore delle rocce, le zone sottostanti alle postazioni nemiche. Qui giunti, sia pure con tutte le difficolta di individuare esattamente la posizione, gli scavatori lasciavano il posto agli artificieri. Questi ultimi riempivano la camera di scoppio con centinaia, a volte migliaia di chilogrammi di esplosivo, facendo saltare in aria tutto cio che si trovava sopra alla galleria, armi e fanti compresi.

Le operazioni dovevano essere svolte con grande prudenza: se il nemico avesse scoperto degli scavatori all’opera, avrebbe immediatamente posto in atto le strategie del caso. Strategie che andavano dall’assalto alla galleria alla simultanea costruzione di un cunicolo chiamato «di contromina», che aveva lo scopo di intercettare e minare quella costruita dagli avversari.

La guerra di mina assomigliava cosi a una delicata partita a scacchi. In palio non c’era la caduta di un re intarsiato in legno, ma la vita di migliaia di soldati impegnati — ormai da molti mesi — in una guerra difficile e logorante.

Alberto Sciarra della Volta si accosto al cannocchiale a periscopio che consentiva di osservare cio che succedeva al di la dei sacchi di sabbia che proteggevano la trincea.

Un comandante doveva saper cogliere ogni rumore sospetto e prendere nota di ogni elemento dissonante con la natura del luogo: un cumulo di detriti che somigliava a una frana lungo un crinale poteva invece essere il punto in cui veniva scaricata la risulta per la costruzione di una galleria.

«Guardate laggiu, tenente Petru», disse il maggiore, lasciando il cannocchiale al subalterno. «Osservate quella piccola frana a mezza costa, sembra originata dal nulla: non vi sono, sopra di essa, rocce instabili o appena smottate.»

«Avete ragione, comandante», rispose l’ufficiale rumeno. «Sono giorni che guardo in quella direzione e mi sembra che i detriti siano aumentati in maniera inspiegabile.»

«Credo dovremo dare un’occhiata di persona.»

L’enorme quantita di terra e sassi derivanti dallo scavo era l’unico indizio capace di rivelare la frenetica attivita che si stava svolgendo all’interno della montagna: quella di centinaia di uomini armati di picconi e martelli che combattevano senza sosta contro la dura roccia dolomitica. Dietro di loro si muoveva una fila pressoche ininterrotta di «anime del purgatorio»: cosi venivano chiamati i militari che, dotati di secchi, avevano il compito di raccogliere i detriti e trasportarli fuori dalla galleria in una delle tante discariche improvvisate lungo le coste delle montagne. Era stato proprio uno di questi ammassi di pietre che aveva alimentato i sospetti del comandante italiano: subito un plotone era stato sollecitato a una sortita esplorativa.

I soldati incaricati del sopralluogo avevano aggirato la montagna muovendosi come felini in caccia e ricorrendo, almeno in quattro occasioni, alle funi e ai chiodi da roccia per superare le asperita di scoscesi dirupi.

Stavano affrontando un passaggio relativamente poco pericoloso: una gola stretta e in leggera pendenza dove il sole non riusciva mai a fare capolino tra le due sentinelle di roccia dolomitica che costituivano i limiti del passaggio medesimo. La scarsa difficolta aveva indotto gli uomini del drappello a non assicurarsi con le funi.

Gli scarponi da rocciatore del tenente Petru persero aderenza sulla spessa lastra di ghiaccio che copriva il fondo della gola. In un primo momento l’ufficiale rumeno parve impegnato in improbabili passi di danza, ma in pochi istanti perse l’equilibrio e si ritrovo a terra.

Avrebbe potuto trattarsi di una banale caduta se il corpo di Petru non avesse cominciato a scivolare sulla superficie levigata del ghiaccio. Soltanto pochi metri separavano il tenente da un profondo burrone e la incontrollabile velocita di caduta aumentava a ogni centimetro.

Il maggiore Sciarra si mosse fulmineo, senza un istante di esitazione: il comandante, che marciava in testa al plotone, si lancio a terra a sua volta, recuperando con lo slancio la distanza che lo separava da Petru. Quando gli fu vicino afferro fermamente il tenente per gli abiti con una mano, mentre con l’altra alzava la piccozza al cielo. Quando la piccozza si abbatte sul ghiaccio, emise una nota sonante e argentina: quel suono, purtroppo, stava a significare che la punta non era riuscita a fare presa e che non sarebbe quindi riuscita a fermare la caduta dei due corpi verso il baratro.

Il resto del plotone era rimasto impietrito a guardare i due ufficiali che, avvinghiati l’uno all’altro, continuavano a scivolare inesorabilmente.

La piccozza del comandante incideva il ghiaccio emettendo un fastidioso stridore, come il gesso che geme al contatto della lavagna. Ancora pochi metri ed entrambi sarebbero precipitati.

Le gambe di Petru penzolarono sul limite del baratro profondo centinaia di metri. La mano del maggiore della Volta si mosse con la forza della disperazione. La piccozza si levo nuovamente verso il cielo e ricadde come un maglio d’acciaio. La punta ruppe lo strato gelato, incuneandosi per diversi centimetri nella coltre candida. Il braccio di Sciarra si tese per il contraccolpo e i corpi dei due uomini parvero saldarsi ancor piu indissolubilmente. Quando la loro corsa verso il vuoto finalmente si arresto, Petru si trovava ormai con buona parte del busto oltre il margine del precipizio.

Rimasero cosi per qualche istante, nel timore che qualsiasi movimento potesse essere loro fatale. Quindi le forti mani del maggiore si strinsero attorno al manico della piccozza e cominciarono a conquistare la via verso la salvezza.

Negli occhi di Petru non c’era paura. Osservava il suo comandante quasi incredulo: quell’uomo non aveva esitato a rischiare la propria vita per salvarlo.

Sciarra si accorse dello sguardo del suo sottoposto, non c’era bisogno di parlare per capire quanta riconoscenza si celasse negli occhi del rumeno.

Gli altri componenti del plotone non avevano perso tempo: si erano assicurati con le funi e si dirigevano verso il bordo del precipizio. Le mani di uno degli alpini strinsero quelle del comandante.

Una notte priva di luna era scesa repentina tra le vette. La temperatura, mite durante il giorno, si era abbassata improvvisamente di molti gradi.

Il comandante era nascosto dietro un grande masso. A poca distanza da lui si trovava il tenente Petru con un manipolo di uomini.

Il maggiore Sciarra era quasi certo che la galleria austriaca corresse nelle vicinanze delle trincee dove erano situati il comando di battaglione e il campo di montagna che ospitava tre compagnie di alpini. Piu di cinquecento uomini stavano rischiando la vita.

Il maggiore, che teneva la pistola in pugno, la mosse per dare il segnale. Nel piu assoluto silenzio Petru e sei alpini sgattaiolarono fuori dai rispettivi nascondigli. Il maggiore si teneva sulla destra del drappello che,

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