complice l’oscurita della notte, si andava avvicinando a una zona pietrosa a mezza costa sul Piccolo Lagazuoi.

L’entrata della galleria era camuffata con un telo sul quale era stato dipinto un fondale roccioso. L’unica nota fuori luogo era data dai due militari austriaci posti di sentinella.

Uno dei soldati batte i piedi rumorosamente, poi disse una frase volgare al collega auspicando un’improbabile presenza femminile. Improvvisamente alcune ombre presero corpo nel buio. Due mani forti premettero simultaneamente le bocche delle sentinelle e le lame delle baionette si infilarono nelle loro gole.

Il maggiore e il tenente adagiarono i corpi a terra, quindi fecero cenno ai loro uomini di procedere verso l’ingresso della galleria.

Il telo era inchiodato a un pannello di legno: una sorta di porta mimetica dotata di cardini e catenaccio.

L’interno della galleria era rischiarato da lanterne a olio poste a distanza regolare.

«Dobbiamo contare i passi e vedere sino a che punto sono arrivati per cercare di calcolare quanto gli manca per raggiungere la nostra base», disse il maggiore con un filo di voce. «Voi», aggiunse indicando due alpini, «rimarrete a presidiare l’ingresso. Non vorrei fare la fine del topo in una galleria austriaca… occhi aperti!»

Con le armi in pugno i sei uomini si addentrarono nel cunicolo.

A differenza di quelle costruite dagli italiani, le gallerie austriache avevano una sezione inferiore: 80x180 centimetri, invece dei 190x190 di quelle italiane. Questa caratteristica, insieme al fatto che gli alpini erano molto piu veloci dei loro nemici nelle escavazioni, aveva alimentato un senso di orgoglio e di superiorita nei soldati italiani che li faceva sentire quasi imbattibili.

«Novecentoventi», conto a mente il tenente Petru, quando una voce sconosciuta echeggio alle sue spalle.

«Deponete le armi o apriamo il fuoco», disse in italiano qualcuno dall’inconfondibile inflessione teutonica.

Istintivamente, i sei uomini si gettarono a terra, rivolgendo le armi verso la nuova minaccia.

L’ufficiale austriaco si trovava alla fine del rettilineo fiocamente illuminato dalle lampade a olio, lungo una cinquantina di metri. La luce era insufficiente per determinare il numero degli uomini che lo accompagnavano.

L’ordine di aprire il fuoco da parte del maggiore Sciarra giunse immediato, ma gli austriaci non si fecero sorprendere: una scarica di fucileria parti alla volta degli alpini appiattiti sul fondo dell’angusta galleria.

Due di loro furono falciati dalla prima raffica, poi, in quello spazio ristretto, si scateno l’inferno.

Pochi minuti piu tardi, dopo essersi battuti come leoni, i quattro italiani rimasti ascoltarono impotenti il rumore metallico del percussore che colpiva il vuoto all’interno delle canne scariche dei loro fucili.

«Ci arrendiamo, cessate il fuoco», disse la voce del comandante.

«Gettate a terra le armi e avanzate lentamente!» rispose l’ufficiale austriaco.

Come fantasmi nella nebbia il maggiore e i suoi uomini si mossero con le mani alzate verso il nemico.

«Guardate qui, tenente Blasko», disse uno dei soldati rivolto all’ufficiale. «Sembra che ce ne sia ancora uno vivo.»

Il tenente Petru scatto come una molla, colpendo al capo un soldato austriaco con il calcio del suo fucile, ma il tentativo di fuga fu immediatamente bloccato e l’ufficiale rumeno si ritrovo sotto la minaccia delle armi dei suoi avversari.

Il comandante del drappello austriaco si fece vicino, e osservo il nemico con aria di disprezzo. «Ah, un servo rumeno», disse in ungherese rivolto a Petru.

Quello rimase immobile.

«Merda rumena e traditrice», disse ancora il tenente ungherese, sputando sulla faccia del giovane ufficiale.

Petru accenno una reazione, tentando di divincolarsi dalla presa dei soldati che lo bloccavano.

Nel tentativo di liberarsi alcune cuciture della divisa cedettero, e l’ufficiale nemico si accorse che Petru teneva dei fogli nascosti tra la fodera e la stoffa della giacca.

«Bene, fammi vedere che cosa nascondi qui.» Le mani dell’ungherese si insinuarono nella stoffa, impossessandosi dei fogli.

«Non c’e abbastanza luce per vedere quello che hai nascosto con cosi grande cura. Lo faro piu tardi all’accampamento…»

«Blasko… Blasko…» disse Petru, come se avesse l’intenzione di imprimersi per sempre nella memoria il nome dell’ufficiale.

«Tenente Bela Blasko, del 43° fanteria imperiale. Tanto non avrai modo ne tempo per raccontarlo.»

Cosi dicendo Blasko fece per colpire con un calcio il prigioniero. Petru si mosse con l’agilita di una fiera: chiuse come in una morsa la gamba dell’ungherese tra il braccio e il corpo. A questo punto il maggiore Sciarra si scaglio contro i due militari che avevano preso il suo subalterno.

Sempre stringendo il tenente Blasko, Petru guadagno una posizione piu favorevole. Quando il rumeno fu certo che nessuno dei nemici si frapponeva tra lui e l’uscita della galleria, alzo una gamba dell’ungherese con violenza. Blasko si libro per un istante a mezz’aria, cadendo poi pesantemente al suolo. Il colpo che ricevette alla nuca non fu pero sufficiente a fargli perdere del tutto i sensi: «Sparate, idioti!» grido l’ufficiale ai suoi, «sparate, non fate fuggire il rumeno!»

Ma Minhea Petru era gia scomparso dietro un’ansa della galleria.

«Voi, maggiore, scommetto avrete molte cose da raccontare al mio comando», disse Bela Blasko, battendo sul palmo aperto della mano le carte appena sequestrate a Petru.

Per tutta risposta, Sciarra inizio quella che sarebbe diventata la litania che l’ufficiale italiano avrebbe recitato al nemico per tutto il tempo della sua prigionia.

«Maggiore alpino Alberto Sciarra della Volta, matricola numero 23B875574. Queste sono le uniche informazioni che sono autorizzato a darvi.»

6

Mar Mediterraneo, 1348

«Pensa, Wu…» disse Humarawa rivolto al suo scudiero, «… pensa al modo in cui la nostra gente festeggia l’avvento di un nuovo anno… pensa alle luci, ai fuochi magici, all’allegria… Come tutto e diverso adesso, qui. Siamo soli in questo mare lontano, persino il calendario e differente dal nostro.»

«Hai nostalgia della tua terra, mio signore?»

«No, Wu. Non e nostalgia. Penso solo alle sorprese che e capace di riservare la vita.» Il samurai tacque, quasi volesse riordinare le idee, poi riprese. «Venezia mi ha dato una possibilita di riscatto dopo la fuga dal mio paese e mi ha accolto come un figlio. E come tale penso di essermi comportato: mi sono battuto in nome del leone di San Marco. Ho solcato questi mari annientando la minaccia dei pirati. Ho comandato truppe d’assedio ed equipaggi di guerrieri pensando che questo fosse lo scopo della mia vita: combattere e vincere il nemico. Sara forse il passare degli anni, ma mi sento stanco, Wu.»

La bocca deforme del gigante cinese si apri in un sorriso: la cicatrice che lo deturpava era dovuta a una ferita che aveva subito nel corso dell’unico combattimento in cui Wu si era visto costretto a soccombere. Era stato Alessandro Crespi, un mercante veneziano, a ridurlo cosi. Lo stesso mercante che, anni prima, aveva convinto il suo signore a fuggire dal Giappone per cominciare una nuova vita nella lontana Venezia.

«Non giudicare le mie parole come irriverenti, mio signore», disse Wu, con un tono ossequioso che mal si accompagnava al suo fisico da orco, «non e certo l’avvicinarsi delle quaranta primavere la causa della tua stanchezza. Sono le nuove responsabilita che ora ti pesano addosso…»

«Che cosa vuoi dire, Wu?» Gli occhi neri e sottili del samurai si fecero penetranti, pur tradendo una delle rare espressioni divertite di Humarawa.

«Voglio dire, insomma, mio signore… il debito d’onore nei confronti del tuo grande nemico…» Wu sembrava un pentolone d’olio pronto a infiammarsi. «Non sono abile con le parole», sbotto Wu a quel punto, «ma,

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