Chicago, e una trentina di persone avrebbero potuto riunirsi li senza sentirsi in carenza di spazio. C’erano quattro schermi televisivi normali e uno gigante, collegamenti diretti con tutti i satelliti americani o stranieri, e un certo numero di videoregistratori. John Kennedy sedette in un angolo col suo sigaro in mano, sotto il condizionatore d’aria, e mordicchiandosi le nocche delle dita studio il replay dell’esibizione di Dom, della faccia di Dom, delle parole che io non riuscivo a credere di sentire dalla bocca di Dom.
Anche John Kennedy sembrava non crederci. — Che ne pensate? — domando attorno. Nessuno gli rispose, e vidi che Hart stava fissando me.
Per un attimo mi chiesi se, in qualche modo, non mi ritenessero complice o responsabile dell’incredibile voltafaccia di Dom. Di nuovo la coscienza sporca, naturalmente.
Poi a quel pensiero se ne sostitui un altro.
— Fatemelo vedere di nuovo, vi spiace? — chiesi, e m’accorsi che mi tremava la voce. Frugai nella borsetta, ne tolsi gli occhiali e li misi, cosa che non facevo mai in pubblico. Fissai intensamente il volto del mio amante, studiandone ogni linea, analizzando il tono di ogni parola, assorbendone ogni gesto.
Dubbiosa mi accigliai. — Mi sembra alquanto dimagrito, no? Come se fosse stato sottoposto a molta tensione… o qualcos’altro.
— O qualcos’altro — affermo Hart. — Avevamo intuito giusto, senatore. Questo non e il nostro Dom DeSota, e il loro.
— Io lo sapevo — affermo placidamente Jackie, che era venuta accanto alla mia poltrona. Sentii una sua mano su una spalla, rassicurante. Avrei potuto baciarla. Quel nodo d’angoscia che non m’ero accorta d’essermi portata dentro fino ad allora si sciolse di colpo. Oh, Dom! Sarai un adultero e vero, ma non potresti mai essere un traditore!…
— Adesso — annuncio il senatore, — credo che dovremmo dare un’occhiata a quel rapporto della CIA, Gary. — Inforco gli occhiali, prese il fascicolo che il collaboratore gli porgeva e comincio a leggere la prima pagina.
Non li ascoltavo piu. Ero troppo occupata ad assaporare il mio sollievo. Non che questo sistemasse tutto, naturalmente. C’era ancora Ferdie. Per non parlare di Marilyn DeSota. Ma almeno uno dei pesi che mi schiacciavano m’era stato tolto di dosso.
Mi chiedevo che ore fossero. Se avessi potuto liberarmi presto e tornare all’albergo… se ce l’avessi fatta a chiamare Ferdie prima che andasse a letto… forse adesso sarei stata capace di controllarmi abbastanza da potergli dire quel che avevo tanta paura di dire. Ovviamente restava il problema Marilyn…
E non c’era niente di ovvio, in Marilyn! Che diavolo stavo pensando? Come potevo meditare di confessare il nostro segreto senza informarne Dom? Come potevo soltanto pensarlo, senza prima essermi consultata con Dom innanzitutto?
Di nuovo brancolante nelle mie incertezze cercai di prestare attenzione a quel che John Kennedy stava dicendo: — … due persone. Il primo un poliziotto di Albuquerque piu sveglio di quel che credevano loro. La seconda, una graziosa agente dell’FBI, in short aderenti e bicicletta, sulla collina dove altri di loro piantonavano il ripetitore della TV. Nessuno dei due ha avuto difficolta a far chiacchierare gli uomini del nemico.
— Misure di sicurezza piene di buchi — si acciglio Hart.
— Piene di buchi le loro, e meglio per noi — disse John. — Comunque questi non hanno detto niente… o almeno non molto, circa questioni d’interesse militare. Ma sia il poliziotto sia la ragazza dell’FBI li hanno fatti parlare sulle differenze fra il loro mondo e il nostro. Penso che adesso abbiamo una discreta idea dei punti in cui la loro storia e la nostra divergono.
Mi sforzai di capire bene quel che John Kennedy disse poi. Non mi era facile. La mia cultura riguardava principalmente la musica, e al tempo in cui frequentavo la Juilliard il corso di storia non c’era neppure. Per questo mi resto arduo capire cosa intendesse per «linee temporali parallele», anche se Dom me l’aveva gia spiegato. Come fatto reale era molto difficile da accettare.
— Sembra che i loro nemici — spiego John, — siano l’Unione Sovietica e la Repubblica Popolare Cinese.
Fece una pausa e getto un’occhiata all’ambasciatore, che con aria aggrondata resto seduto nella sua poltrona e non fece alcun commento. — Quale Cina? — chiesi io, come chiunque altro avrebbe fatto. Si riferiva al Protettorato Coreano, o all’Han Pekinese, o al Regno di Hong Kong, o alla Manciuria, o all’Impero Taiwanese, o ad uno degli altri dodici o quindici staterelli in cui la Cina s’era divisa dopo la Rivoluzione Culturale?
— Hanno una Cina soltanto — disse John. — Una nazione unita, la quale, per loro, e la piu grande della Terra.
Ci fissammo l’un l’altro. Questa era abbastanza dura da mandar giu. E l’idea che l’Unione Sovietica minacciasse qualcun altro mi sembrava perfino piu assurda. Cercai di leggere nell’espressione di Lavi, ma su di essa non era ancora emerso niente: si limitava ad ascoltare. Dopo un po’ allungo una mano e prese uno dei sigari del senatore, benche sapessi che di solito non fumava. Lo esamino rigirandoselo lentamente fra le dita, e continuo a star zitto.
Potevo accorgermi che certi aspetti di quella situazione lo mettevano assai piu a disagio di noi. Dopotutto era stata la guerra atomica con l’U.R.S.S. che aveva precipitato la Cina nella Rivoluzione Culturale. Cio che i russi avevano subito, con la perdita di Mosca e Leningrado e la distruzione economica, era stato ancor peggiore.
Cercai di ricordare un po’ della storia russa. C’erano stati gli zar. Poi Lenin, che era morto assassinato o qualcosa del genere. Poi Trotzky, sotto cui la nazione era stata trascinata in una serie di guerre con stati confinanti come la Finlandia e l’Estonia, quasi tutte perdute. Quindi era andato al potere per un po’ di tempo il nonno di Lavrenti (travagliato da carestie e insurrezioni interne) che aveva dato il via alle ricerche atomiche costringendoci a una vera e propria gara nucleare, terminata solo quando i cinesi avevano annientato Mosca, la loro industria nucleare e tutto quanto…
Ma nell’altra linea temporale, a quanto pareva, Trotzky non era andato al Cremlino. Il nonno di Lavrenti invece si, per molti anni. C’era stata una sola grande guerra, chiamata Seconda Guerra Mondiale, e l’avevano fatta contro un uomo chiamato Hitler, un tedesco che intendeva conquistare il mondo, e che quasi c’era riuscito prima che il resto del mondo si alleasse contro di lui.
E comunque… li c’era Lavrenti, seduto dall’altra parte del salotto, che accendeva con calma il suo Cuban Claro. Naturalmente, di nome era comunista. Ma i russi non erano in alcun modo militanti come, ad esempio, i Bolscevici Inglesi, con le loro basi militari sparse in tutte quelle che chiamavano le Repubbliche Federali del Commonwealth. Grazie al cielo il Canada e l’Australia li avevano sbattuti fuori… Scossi la testa. Queste faccende non avevano mai avuto senso per me.
Lo avevano, sfortunatamente, per Lavrenti Djugashvili. Prima che Kennedy avesse finito di leggere il rapporto della CIA, era arrivato a meta del sigaro, e lo stava masticando pensosamente allorche il senatore depose il fascicolo e si volse a interrogarlo con lo sguardo.
— Capisco dove volete arrivare — annui Lavi. — E la cosa e molto preoccupante. Se quest’invasione della vostra terra e, in definitiva, diretta contro la mia…
— Non esattamente contro la tua, direi — lo corresse subito John. — Suppongo invece contro l’Unione Sovietica della loro linea temporale.
— La cui gente — disse Lavi, cupo, — e pur sempre la mia gente, o no?
Kennedy non disse nulla, pero ebbe un gesto d’assenso impercettibile.
Lavi si alzo. — Col suo permesso, mia cara signora Kennedy — disse gravemente, — penso che adesso dovro fare una capatina alla mia ambasciata. La ringrazio per le informazioni, senatore. Forse si decidera di fare qualcosa, anche se ora come ora non posso immaginare cosa.
Ci alzammo tutti, anche noi donne. Non fu tanto un segno di rispetto quanto una muta dichiarazione di simpatia. Quando se ne fu andato, il senatore Kennedy suono per il maggiordomo e gli chiese di portarci i soprabiti. — Povero Lavrenti — sospiro. E poi: — Poveri noi, anche, in quanto a questo, perche neppure io immagino cosa si debba fare.
Ad onta della sua schiena indolenzita il senatore decise di riaccompagnarmi all’albergo lui stesso. Jackie si aggrego a noi tanto per fare un giro in macchina. Il tragitto non fu esilarante. Aveva ricominciato a piovere, e sull’asfalto c’era una patina scivolosa d’acqua e morchia.