esercitato a Cleveland, dottore?
– Sicuramente no. – La sua voce pareva venire da molto lontano. Anche il suo sguardo era remoto. Le labbra si schiusero solo quel tanto che bastava per far passare la sigaretta. Lagardie era quasi immobile.
– C'e un'intera sala piena di guide alla direzione dei telefoni – dichiarai. – Guide di tutta l'America. Ho cercato il vostro nome. – Avevate uno studio di lusso, in un palazzo del centro, a Cleveland – soggiunsi dopo una breve pausa. – Ed ora questo… lavorate, quasi di nascosto, in una cittadina balneare. Avreste voluto cambiar nome ma era impossibile farlo mantenendo la possibilita di esercitare. Ci dev'essere una mente direttiva, dietro gli avvenimenti degli ultimi giorni, dottore. Clausen era un alcoolizzato, Hicks un truffatore ottuso, Orrin Quest un menagramo gretto e malintenzionato. Pero potevano essere manovrati. Voi non potevate andare contro Steelgrave direttamente. Non sareste rimasto vivo nemmeno il tempo necessario per pulirvi il naso. Dovevate levare la castagna dal fuoco con le zampe del gatto. Zampe piuttosto costose. Be', abbiamo fatto qualche passo avanti?
Il dottor Lagardie mi sorrise debolmente e si appoggio allo schienale della poltrona, con un sospiro.
– Supposizione D, signor Marlowe – disse, quasi bisbigliando. – Voi siete un perfetto idiota.
Sorrisi, e cercai un fiammifero, per accendere la sigaretta egiziana.
– E come se questo non bastasse – continuai – la sorella di Orrin mi telefona e mi dice che il ragazzo e in casa vostra. Ammetto che sono argomenti ben poco probativi, presi uno per uno. Pero, nel loro complesso, han proprio l'aria di puntare tutti verso di voi. – E aspirai placidamente il fumo della sigaretta.
Il medico mi studiava. Il suo viso parve fluttuare, andar molto lontano, poi tornare. Sentii irrigidirmisi qualcosa, nello stomaco. Il mio cervello rallento, e marcio a passo di tartaruga.
– Che cosa sta succedendo? – mi udii borbottare.
Posai le mani sui braccioli della poltrona e mi tirai su. -… stato idiota, eh? – chiesi, con la sigaretta ancora in bocca, fumandola ancora. Idiota non era precisamente la parola. Dovro coniarne una nuova.
Mi ero alzato dalla poltrona, e avevo i piedi presi in due barili di cemento. Quando avevo parlato mi era parso che la mia voce si facesse strada attraverso la bambagia.
Lasciai andare i braccioli e cercai di prendere la sigaretta. La mancai in tronco, un paio di volte, poi riuscii a chiuderle intorno un mano. Ma non pareva una sigaretta. Pareva la gamba posteriore di un elefante. Con le unghie affilate. Mi si piantavano nella carne. Scossi la mano, e l'elefante ritiro la gamba.
Una figura vaga, ma enormemente alta apparve a un tratto di fronte a me, e un mulo mi diede una pedata nel petto. Mi sedetti sul pavimento.
– Un po' di acido cianidrico – disse una voce, al telefono transatlantico. – Non e fatale… nemmeno pericoloso. Aiuta soltanto a riposare.
Cercai di alzarmi dal pavimento. Dovreste provarvi, qualche volta. Ma prima dite a qualcuno di inchiodare il pavimento. Quello dov'ero io faceva il giro della morte. Dopo un certo tempo si calmo un poco. Si stabilizzo a un angolo di quarantacinque gradi. Mi rimisi in sesto e cercai di andare in qualche posto. All'orizzonte c'era una cosa che poteva essere la tomba di Napoleone. Era una meta possibile. Mi avviai da quella parte. Il cuore mi batteva forte, e in fretta, e faticavo a far funzionare i polmoni. Come quando si 'scoppia'' giocando al calcio. Si pensa che il fiato non tornera mai piu. Mai, mai mai piu.
Poi non era piu la tomba di Napoleone. Era una zattera in balia delle onde. C'era un uomo, sopra. Una cara persona. Eravamo andati cosi bene d'accordo. Mi incamminai verso di lui, e urtai una parete con la spalla.
Questo mi fece girare su me stesso. Cercai di afferrare qualcosa per sostenermi. Non c'era nulla all'infuori del tappeto. Come mai ero arrivato laggiu? Inutile chiederlo. E un segreto. Ogni volta che fate una domanda di questo genere vi sbattono un pavimento in faccia. E va bene… cominciai a trascinarmi carponi sul tappeto. Mi appoggiavo su quelle che un tempo erano state le mie mani e le mie ginocchia. Ora non le sentivo piu. Mi trascinai verso un muro di legno nero. O forse era marmo nero. Di nuovo la tomba di Napoleone. Che male avevo fatto a Napoleone? Perche continuava a tirarmi dietro la sua tomba?
– Voglio un bicchier d'acqua – dissi.
Ascoltai, per sentire l'eco. Niente eco. Nessuno disse nulla. Forse non avevo parlato. Forse era stata un'idea, che poi avevo scartato. Acido cianidrico. Sono due parole molto lunghe, da rimuginare mentre si sta strisciando in un tunnel. Niente di fatale, aveva detto lui. D'accordo. Si fa per ridere. E quel che si puo definire: semi-fatale. Philip Marlowe, di anni trentotto, investigatore privato di dubbia reputazione e stato arrestato dalla polizia, la notte scorsa mentre stava strisciando attraverso La Grande Grondaia Interplanetaria con un piano a coda sulla schiena. Interrogato al posto di polizia delle Alture Universitarie, Marlowe ha dichiarato che stava portando il piano al Maragia di Cucii Berar. Richiesto del perche portasse speroni Marlowe ha dichiarato che le confidenze del cliente sono sacre. Marlowe e trattenuto in stato di fermo per ulteriori indagini. Il Capo Cornosecco ha annunziato che la polizia non era ancora disposta a dare altri particolari.
Ai giornalisti che gli chiedevano se il piano fosse accordato il Capo Cornosecco ha risposto che vi aveva suonato sopra il Valzer del Minuto in trentacinque secondi; per quanto gli constava la cassa armonica non conteneva corde. Il Capo ha lasciato capire che la cassa conteneva qualcos'altro.
Un esauriente comunicato per la stampa verra emesso entro dodici ore, ha promesso bruscamente il Capo Cornosecco. Ovunque si sussurra che Marlowe stesse cercando di occultare un cadavere.
Un viso fluttuo, verso di me, uscendo dall'oscurita. Cambiai direzione e mi incamminai a quella volta. Ma il pomeriggio era troppo avanzato. Il sole stava tramontando. Si faceva notte rapidamente. Il viso non c'era piu.
Non c'era piu il muro, piu la scrivania. Poi non ci fu piu il pavimento. Non ci fu piu nulla.
Anch'io non ero piu la.
CAPITOLO XXI
Un enorme gorilla nero, mi aveva piantato in faccia una enorme zampa nera e spingeva, cercando di prendermi la nuca. Io spinsi in direzione opposta. Sostenere il lato piu debole di una questione e sempre stata la mia specialita. Poi mi accorsi che il gorilla stava cercando di impedirmi di aprire gli occhi.
Decisi di aprirli ugualmente. Altri l'avevano fatto. Perche non io? Raccolsi tutte le mie forze e con estrema lentezza, irrigidendo la spina dorsale, flettendo le ginocchia, usando le braccia come gomene sollevai il peso mortale delle mie palpebre.
Guardavo il soffitto, mentre giacevo supino sul pavimento, una posizione in cui mi ero trovato altre volte, per motivi professionali. Voltai il capo.
Mi sentivo i polmoni rigidi, la bocca secca. La stanza era solo lo studio del dottor Lagardie. La stessa poltrona, la stessa scrivania, le stesse pareti, le stesse finestre. Lo stesso silenzio claustrale gravava nell'aria.
Mi rizzai su un fianco, mi tenni saldo al pavimento e scossi il capo. Il pavimento parti in vite piatta. Precipito cosi, per tremila metri, poi riuscii a bloccarlo e a rimetterlo in carreggiata. Sbattei le palpebre. Stesso pavimento, stessa scrivania, stesse pareti. Ma niente dottor Lagardie.
Mi umettai le labbra ed emisi una specie di suono, molto vago, al quale nessuno bado. Poi mi tirai in piedi. Ero stordito come un derviscio, debole come una lavandaia stanca, depresso come il fondo d'una marcita, timido come un scricciolo e destinato a riuscire come un danzatore classico con una gamba di legno.
Mi trascinai, quasi a tastoni, dietro la scrivania del dottor Lagardie e cominciai a pasticciare nervosamente nel suo armamentario, alla ricerca di una bottiglia di fertilizzante liquido. Niente da fare. Mi alzai di nuovo. Il peso del mio corpo era tremendo da sollevare, come un elefante morto. Mi aggirai per la stanza, barcollando, guardando dentro agli armadietti lustri di smalto bianco che contenevano tutte le cose di cui altri avevano bisogno urgente. Finalmente, dopo quelli che mi parvero quattro anni di lavori forzati, la mia mano si chiuse intorno a un mezzo litro di alcool etilico. Tolsi il tappo alla bottiglia e fiutai. Alcool di grano. Proprio come diceva l'etichetta. Tutto quel che mi occorreva, ora, era un bicchiere e un po' d'acqua.
Un uomo in gamba avrebbe dovuto farcela. Puntai verso la porta, diretto all'ambulatorio. L'aria aveva ancora l'aroma delle pesche troppo mature.
Urtai contro i due stipiti della porta, mentre l'attraversavo, e mi fermai, per prendere di nuovo la mira.
In quel momento mi accorsi che dei passi si avvicinavano, lungo il corridoio. Mi appoggiai esausto al muro e rimasi in ascolto.
Passi lenti, strascicati, con una lunga pausa, tra l'uno e l'altro. Sulle prime mi parvero furtivi. Poi mi parvero