«Le ossa!», domando, scuotendomi il braccio con forza quasi divina. «Dov’e la prigione? Parla, mia cara! Tu conosci questo posto meglio di me!».
Ero impotente in sua presenza e provavo vergogna per la mia impotenza; quando affondo i suoi denti regolari nella mia spalla e lacero stoffa e carne, non riuscii a trattenere un grido.
«
«La prigione!», grido ancora, poi rimase in silenzio; uno sguardo ispirato alleggeri la malvagita della sua espressione. «Si… il posto con le ossa, dove tu mi conducesti a vedere Arkady… Portamici immediatamente!».
«Ti ci portero», dissi, «se tu risponderai a una sola domanda. Chi l’ha fatto rivivere?».
I suoi occhi si strinsero.
«Allora lo hai incontrato, suppongo… Bah! E stato uno spreco, uno spreco di energia. Tu
«Al prezzo di Dunya», osservai amaramente. «Hai ucciso lei per far rivivere lui…».
Lei non lo nego, ma mi scosse malamente, dicendo:
«Fai strada! Portamici adesso… e sappi che piu tardi pagherai per questa insolenza. Quando diventero potente come l’Oscuro Signore, stanotte, ti mettero in gabbia nella Vergine per tutta l’eternita! E tu, mia cara, sarai la prima ad essere testimone della mia trasformazione e della mia vendetta; hai guadagnato questo dal tuo tradimento».
Non sapevo cos’altro fare, cosi la condussi all’entrata principale del castello, poiche era soltanto risalendo che potevamo poi scendere fin dove intendeva andare. E, mentre passavamo di li, lei si fermo mentre la grande porta principale si spalancava, e sorrise alla vista di Bram, affannato, con gli occhi sconvolti, sulla soglia.
«Dottor Van Helsing», disse con ironica dolcezza. «Come siete gentile a farci visita! Temo di essere, al momento, occupata con uno dei vostri parenti, ma non temete! Ritornero da voi… sia che fuggiate con la nave, con il treno o con il carro; non importa. Vi trovero e faro fare a voi e ai vostri amici una spiacevole fine».
Fece quindi un gesto con la mano verso di lui, come una gelida signora potrebbe scacciare un servo; subito lui cadde all’indietro, in silenzio.
Lo lasciai li e la condussi nel profondo delle viscere del castello, nell’umida cantina scavata nella terra, ora completamente piena delle ossa dei molti che vi erano morti tra i tormenti.
«La donna», disse Elisabeth, con la voce bassa per l’ansia. «Dove sarebbe la donna con il cuore d’oro?».
Onestamente non lo sapevo.
«Questi sono, per la maggior parte, uomini», dissi, indicando verso il basso la terra ricoperta di ossa, «ma alcune sono donne. Non so immaginare dove…».
Le mie parole furono cancellate da un vento potente, che alzo la terra compressa e comincio a farla roteare, finche la stanza fu piena di sabbia pungente e turbinante. Mi coprii il viso finche essa si poso, poi abbassai le mani e vidi che i miei piedi erano fermi sopra un’ineguale piattaforma di scheletri ammassati, tutti cosi vecchi che le ossa si erano staccate ed erano sparse disordinatamente. Migliaia e migliaia di scheletri, cosi tanti da farmi comprendere che essi e non la terra costituivano le fondamenta del castello.
Solo un piccolo punto emergeva tra quel macabro intrico di avorio ingiallito: l’angolo dov’era il catafalco di Arkady, dal quale la polvere e la bara di Dunya adesso erano stati rimossi. Il catafalco di pietra restava ma, sotto di esso — da secoli, circondato da gambe, braccia e mani d’ossa e da dita senza carne che afferravano la sua lucida superficie — vi era una bara di acciaio lucente.
Sempre tenendomi per il braccio, Elisabeth mi trascino verso di essa… poi lentamente allento la presa con un sorriso astuto, sapendo che non sarei potuta scappare da lei in quel momento. Stringendo con una mano il manoscritto, uso l’altra per spingere di lato il solido catafalco di pietra, facilmente, come una donna mortale potrebbe spingere una sedia.
La pietra cadde rivoltandosi su altre ossa, schiacciandole quando cadde su un lato. Entrambe ci chinammo sulla bara per leggere l’iscrizione che vi si trovava, in rumeno arcaico:
Con un sibilo di trionfo, Elisabeth tolse il coperchio e lo getto di lato; esso cadde rumorosamente sulla pietra, rompendola.
All’interno si trovava uno scheletro piccolo e fragile, con la mascella disintegrata, tanto che il cranio era caduto in avanti sulle ossa del collo e giaceva perpendicolarmente alle costole. Sotto la testa c’era una lunga striscia di capelli neri in decomposizione; sotto le braccia incrociate un pezzo di seta ingiallita a brandelli.
E a sinistra dello sterno vi era un medaglione di oro martellato, leggermente piu grande di quanto doveva essere stato il vero cuore della signora. Nel centro c’era una piccola serratura e, sopra la serratura, scritte in latino, c’erano le parole:
Subito Elisabeth lo agguanto e, con la mano che tremava, trasse la piccola chiave d’oro dal suo seno e la fece scivolare nella serratura.
Vi si adatto senza difficolta, con uno scatto. Mentre lo apriva lentamente, mi guardo con un oscuro, cupo sorriso.
L’espressione di Zsuzsanna era calma, senza paura; non disse una parola mentre Elisabeth si prendeva gioco di me, mi minacciava, e mi faceva cadere a terra come aveva fatto con gli altri, con un semplice gesto. Ma, prima che la contessa trascinasse via la sua prigioniera, promettendo di ritornare da me piu tardi, Zsuzsanna catturo il mio sguardo.
E le sue silenziose parole mi riempirono la testa:
Andava incontro, lo sapevamo tutti e due, al piu spiacevole dei destini, ma sembrava estremamente rassegnata al suo fato, come se lo meritasse, e non mostro altro che preoccupazione per me. E, in quell’istante, le perdonai lutto.
Arminius! Dannato Arminius! Una volta che entrambe furono scomparse, mi alzai in ginocchio e singhiozzai, scuotendo il pugno verso l’aria vuota, pregando perche il mio protettore apparisse e mi aiutasse.
Da qualche punto sotto di me, nelle viscere del castello, udii il grido soffocato di Zsuzsanna, e mi alzai pieno d’ira. Non sarei stato a guardare. Avevo visto la direzione in cui erano andate, e la seguii finche trovai una botola che chiaramente conduceva di sotto. Ma era bloccata. Non riuscii ad aprirla e non riuscii a entrare: non potei fare altro che lamentarmi in preda a un’impotente frustrazione. Tra pochi minuti, forse anche prima, Elisabeth sarebbe ancora emersa, e nessun talismano in tutto il mondo l’avrebbe fermata.
Cosi mi sedetti sul pavimento, tenendomi la testa tra le mani e, agnostico quale sono, pregai Dio.
Nella mia testa, una voce parlo ancora: era la voce benedetta di Arminius.
«No!». Mi premetti le mani contro il cranio, per fame uscire quelle cattive parole. «No!».