— Con una trasmissione radio? — chiese Vargas. — Ci vogliono trecento anni perche arrivi. Presto la torre sara finita.
— Gia, presto. Presto. Dovresti vederla. Vieni a farle una visita, la prossima settimana. Stanno montando le nuove macchine. Presto parleremo con quei bastardi.
— Vuoi sentire l’arrivo del segnale in audio? Voglio dire, del nuovo segnale?
— Certo.
Vargas premette un interruttore. Dagli altoparlanti sulla parete del laboratorio venne un sibilo secco e freddo: il suono dello spazio, la voce dell’abisso e della tenebra… Quel suono faceva pensare alla pelle vecchia, abbandonata, di un serpente. Al di sopra di quel suono rinsecchito, qualche secondo dopo, vennero alcune dolci note a frequenza superiore.
— Bellissimo — sussurro Krug. — La musica delle sfere. Ah, quei misteriosi bastardi! Senti, professore, vieni a vedere la torre la prossima settimana… martedi prossimo. Ti faro chiamare da Spaulding. Rimarrai sbalordito. E, senti, qualsiasi cosa di nuovo, qualsiasi cambiamento nel segnale: voglio esserne subito informato!
Si diresse al trasmat.
Krug balzo a nord, lungo il meridiano, seguendo la linea dei 90 gradi est: doppio il Polo Nord ed emerse a fianco della sua torre. Era passato da un pianoro gelato a un altro pianoro gelato, dal fondo del mondo alla sua cima, dalla tarda primavera all’inizio dell’inverno, dal giorno alla notte. Dappertutto c’erano androidi affaccendati. La torre, dalla visita del giorno precedente, pareva essere cresciuta di una cinquantina di metri. Il cielo sfolgorava di piastre luminose. Il canto di NGC 7293 riecheggiava seducente nella mente di Krug.
Al centro di controllo trovo Thor Guardiano, innestato al calcolatore. L’alfa, che non poteva accorgersi della presenza di Krug, sembrava perso in un sogno narcotico, afferrato ai precipizi di qualche lontana superficie d’intervento uomo-macchina. Un beta dall’aria intimorita si offri d’inserirsi nel circuito per avvertire Thor, mediante il computer, che era arrivato Krug. — No — disse Krug. — Adesso e occupato. Lascialo lavorare. —
Con affetto, e con una punta di sorpresa lui per primo, strinse in un rapido abbraccio le larghe spalle di Thor. Poi usci. Rimase qualche tempo nella gelida oscurita, a rimirare l’attivita frenetica che si svolgeva a ogni livello della torre. Sulla cima stavano montando altri blocchi con un ritmo febbrile. All’interno, le piccole figure spostavano gli schermi per neutrini, univano le grandi barre di rame, posavano le solette, estendevano verso l’alto il sistema di condizionamento e d’illuminazione. Dalla notte gli giungeva una ritmica pulsazione: tutti i rumori del cantiere si fondevano in un singolo ritmo cosmico, un profondo ronzio che saliva regolarmente a un vertice d’intensita. Nella mente di Krug s’incontravano i due suoni, quello interiore e quello proveniente dall’esterno:
Si avvio verso il trasmat, senza badare alle gelide folate del vento artico.
Non c’e male, per un poveraccio senza molta istruzione, si disse. La torre. Gli androidi. Tutto. Ricordo il Krug di quarantacinque anni prima: il Krug che cresceva da miserabile in una cittadina dell’Illinois con ancora l’erba in mezzo alla strada. Non pensava affatto a mandare messaggi alle stelle, allora. Desiderava solo dare uno scopo a se stesso. Non era nessuno, allora. Che Krug! Pelle e ossa. Pustoloso. Ignorante. A volte, nelle olotrasmissioni, sentiva dire che l’umanita si affacciava su una nuova Era dell’oro: bassi livelli di popolazione, assenza di tensioni sociali e razziali, tutta una legione di servomeccanismi per fare i lavori piu faticosi. Si. Si. Bello. Ma anche in un’epoca dorata come quella, qualcuno rimaneva sempre al fondo della piramide; come Krug. Orfano di padre a cinque anni. La madre sempre sbronza a forza di sollevati, di stimolatori sensoriali, di pillole oniriche di tutte le specie. Qualche soldo entrava, non molti, da un ente assistenziale. Robodomestici? Neanche l’ombra: i robot li avevano gli altri. Buona parte delle volte, persino il terminale col notiziario non funzionava perche non avevano pagato la bolletta. Il suo primo trasmat l’aveva usato quando aveva diciannove anni. Non si era mai allontanato dall’Illinois. E ricordava com’era allora: scontroso, chiuso in se stesso, perfino un po’ strabico; a volte passava settimane intere senza parlare con anima viva. Non leggeva. Non giocava. Pero sognava; sognava sempre. Aveva fatto le scuole in un alone di rabbia, senza imparare nulla. Poi si era scosso lentamente a quindici anni, spinto da quella stessa rabbia, e l’aveva rivolta all’esterno invece di lasciarla incancrenire:
Entro nella cabina trasmat piu vicina e regolo le coordinate senza pensarci: lascio che le dita scegliessero automaticamente la destinazione. Usci dal campo e si trovo nella residenza californiana del figlio Manuel.
Non aveva pensato a far visita al figlio. Rimase immobile, batte gli occhi al sole del pomeriggio e rabbrividi al tocco dell’atmosfera tiepida sulla pelle, che fino a pochi istanti prima era esposta ai rigori dell’Artico. Aveva sotto i piedi un pavimento di lastre d’ardesia; le pareti ai suoi fianchi erano due ondeggianti turbini di luce prodotta dai proiettori polifasici installati nelle fondamenta; sopra di lui non c’era il tetto, ma solo un campo di repulsione regolato sui toni alti dello spettro: si scorgevano, al di la, i rami carichi di frutti di un albero con foglie piumose, verde scuro. Sentiva il ruggito della risacca. Cinque o sei domestici androidi, intenti alle faccende quotidiane, si arrestarono e lo fissarono a bocca aperta. Senti un mormorio intimorito: “
Giunse Clissa. Indossava una veste verde e vaporosa che le rivelava il seno piccolo e alto, i fianchi ossuti, le spalle strette. — Non mi avevi detto che saresti venuto…