— Mi conosci da cinque ore. Anzi, nemmeno.

— Ma capisco sempre quando m’innamoro. — Il tono e l’espressione di Kathy erano decisi. E solenni.

— Non sai nemmeno di preciso chi io sia!

Lei disse: — Non so mai chi sia chiunque.

Su questo, evidentemente, non c’era da discutere. Cosi Jason tento un altro approccio. — Senti, tu sei una strana combinazione di innocente romantica e… — Si interruppe. Gli era venuto in mente il termine “traditrice”, ma lo scarto subito. — … E di sottile manipolatrice. Una che sa fare i suoi calcoli. — “Sei” penso “una prostituta mentale. Perche e la tua mente a prostituirsi. Anche se non lo ammetteresti mai. E, se lo ammettessi, sosterresti di esserci stata costretta. Gia, costretta, ma da chi? Da Jack? Da David? No, da te stessa. Perche vuoi avere due uomini contemporaneamente, e ci riesci.

“Povero Jack” penso. “Povero stronzo. Te ne stai a spalare merda in un campo di lavori forzati in Alaska e aspetti che questo relitto umano dai percorsi cerebrali tanto contorti ti salvi.”

Quella sera, senza convinzione, ceno con Kathy in una specie di ristorante italiano, a un isolato di distanza dal monolocale. A quanto pareva, lei conosceva il proprietario e i camerieri, anche se molto superficialmente; comunque, loro la salutarono e lei rispose con aria assente, come se li avesse uditi appena. O come se avesse solo una consapevolezza approssimativa di dove si trovasse.

“Ragazzina” si chiese, “a cosa stai pensando realmente?” — Le lasagne sono ottime — disse Kathy, senza guardare il menu. Adesso pareva lontanissima. Si stava allontanando sempre di piu, attimo dopo attimo. Jason intui che era prossima a una crisi. Ma non conosceva Kathy a sufficienza; non sapeva in quale modo si sarebbe manifestata. E quell’idea non gli piaceva.

— Quando ti viene una crisi — chiese improvvisamente, nel tentativo di coglierla alla sprovvista, — cosa fai?

— Oh… — La voce di lei era incolore. — Mi butto sul pavimento e urlo. Oppure tiro calci. A chiunque tenti di fermarmi. A chi interferisce con la mia liberta.

— Credi di volerlo fare adesso?

Lei alzo la testa. — Si. — Il suo viso, noto Jason, era diventato una maschera dai tratti distorti. Ma gli occhi restavano perfettamente asciutti. Quella volta non ci sarebbero state lacrime. — Non ho preso le mie medicine: venti milligrammi di Actozine al giorno.

— Perche? — Non le prendevano mai. Jason aveva notato quel comportamento molte volte.

— Mi annebbiano la mente. — Kathy si tocco il naso con l’indice, come impegnata in un complesso rituale che doveva essere eseguito in modo assolutamente perfetto.

— Ma se ti…

Lei lo interruppe in modo secco. — Non possono combinare casini con la mia mente. Non permetto a nessuno psicofarmaco di agire su di me. Lo sai cos’e uno psicofarmaco?

— L’hai appena detto tu. — Jason rispose in tono calmo e pacato, mantenendo la concentrazione su di lei. Come se stesse cercando di trattenerla li, di non far disgregare la sua mente.

Arrivo il cibo. Era disgustoso.

— Non e meravigliosamente italiano? — chiese Kathy, arrotolando gli spaghetti sulla forchetta con maestria.

— Si — rispose lui senza convinzione.

— Tu pensi che stia per venirmi una crisi. E non vuoi restarne coinvolto.

— Esatto.

— Allora vattene.

— Tu… — Jason esito. — Tu mi piaci. Voglio assicurarmi che non ti succeda niente di male. — Una bugia benevola, del tipo che lui approvava. Gli sembrava meglio che dire: “Se me ne vado di qui, tra venti secondi tu telefonerai a McNulty”. Il che, in effetti, era esattamente la situazione in cui si trovava.

— Andra tutto bene. Mi porteranno a casa. — Con un cenno vago della mano, Kathy indico all’intorno i clienti, i camerieri, la cassiera. Il cuoco che sudava nella cucina surriscaldata e poco ventilata. Un ubriaco al banco, che giocherellava con il bicchiere di birra Olympia.

Jason, dopo un puntuale calcolo mentale, ragionevolmente certo di fare la cosa giusta disse: — Tu non ti assumi mai delle responsabilita.

— Per chi? Non mi assumo responsabilita per la tua vita. Se e questo che intendi. E compito tuo. Non scaricarlo sulle mie spalle.

— Responsabilita — disse lui — per le conseguenze che i tuoi atti avranno su altri. Da un punto di vista etico, tu vai alla deriva. Stabilisci un contatto qui, uno la, poi torni in immersione. Come se nulla fosse successo. E lasci che siano gli altri a dover rimettere insieme i pezzi.

Kathy alzo la testa di nuovo e lo fisso negli occhi. — Ti ho fatto del male? Ti ho salvato dai pol. Ecco cos’ho fatto per te. Ho sbagliato? E cosi? — La sua voce si alzo di tono. Fissava Jason senza misericordia, a occhi sbarrati, con la forchettata di spaghetti ancora in mano.

Lui sospiro. Non c’era via d’uscita. — No. Non hai sbagliato. Grazie. Te ne sono grato. — E, mentre lo diceva, provo un’ondata di odio per Kathy. Che lo aveva messo in trappola in quel modo. Una stupida Ordinaria di diciannove anni che chiudeva in angolo un Sei adulto come lui: era tutto cosi improbabile da sembrare assurdo. Avrebbe avuto quasi voglia di ridere. Ma non era il caso.

— Stai reagendo al mio calore umano? — chiese lei.

— Si.

— Senti arrivarti il mio amore, vero? Ascolta. Lo puoi quasi udire. — Kathy si concentro. — Il mio amore sta crescendo, ed e un giovane virgulto.

Jason fece un cenno al cameriere. — Cos’avete da offrire? — chiese in tono brusco. — Solo birra e vino?

— Ed erba, signore. Acapulco Gold della migliore qualita. E hashish. Eccellente.

— Ma niente superalcolici.

— No, signore.

Lui congedo il cameriere.

— L’hai trattato da servo — disse Kathy.

— Gia. — Jason emise un gemito. Chiuse gli occhi e si massaggio il naso. Tanto valeva andare sino in fondo; dopo tutto, era gia riuscito a innescare l’ira di Kathy. — Il cameriere e penoso, e questo e un ristorante indecente. Usciamo.

La voce di Kathy era acida. — Oh, ecco cosa significa essere una celebrita. Capisco. — Mise giu, con calma, la forchetta.

— Cosa pensi di avere capito? — ribatte lui, senza piu argini. Ormai il suo ruolo di conciliatore era finito a gambe all’aria. E non lo avrebbe piu ritrovato. Si alzo, afferro la giacca. — Io me ne vado — informo Kathy.

— Dio. — Lei chiuse gli occhi. La sua bocca, in una smorfia innaturale, resto spalancata. — Dio. No. Cos’hai fatto? Lo sai cos’hai fatto? Lo capisci? Riesci ad afferrare l’enormita della cosa? — E poi, a occhi chiusi e a pugni stretti, abbasso la testa e comincio a urlare. Jason non aveva mai sentito niente del genere. Resto paralizzato da quel suono, e dalla vista del viso contratto di Kathy. Si senti sopraffatto, travolto. “Urla psicotiche” si disse. “Escono dall’inconscio collettivo.

Non da un singolo ma dalla piu profonda radice della nostra specie.”

Saperlo non gli era d’aiuto.

Il proprietario e due camerieri, con i menu ancora in mano, corsero al loro tavolo. Jason noto dei particolari che gli si impressero stranamente nella mente. Sembrava che tutto, alle urla di Kathy, si fosse congelato. Paralizzato. I clienti che sollevavano le forchette, abbassavano i cucchiai, masticavano… Tutto si fermo, e resto solo quel terribile suono.

E lei stava pronunciando delle parole. Parole crude, di quelle che si trovano scritte sui muri. Parole brevi, distruttive, che colpirono nel profondo tutte le persone presenti nel ristorante, lui compreso. Soprattutto lui.

Il proprietario, con i baffi che vibravano, annui ai due camerieri, che sollevarono Kathy di peso dalla sedia. La presero per le spalle, la tennero sospesa in aria, poi, a un cenno del proprietario, la trascinarono lontano dal separe, attraversando tutto il locale, fino alla strada.

Jason pago il conto e corse fuori.

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