con l’armonica. Mi chiesi se ci fosse qualcun altro, a Ginevra o in tutto il mondo, sintonizzato su quel programma.

Be’, il documentario sulle culture idroponiche era interessante e il suonatore d’armonica era un virtuoso, ma la mia intervista era uno schifo.

Commentatore: — Che odore hanno?

Io (fuori campo): — Orribile, una combinazione di verdura marcia e di zolfo. Il fetore penetra attraverso i tubi di scarico dello scafandro.

Mi aveva fatto parlare tanto per registrare un’ampissima gamma di suoni, e con un lavoretto di montaggio aveva ricavato le risposte che voleva lui alle sue domande.

— E come diavolo ha fatto? — chiesi a Mike quando la trasmissione fini.

— Non prendertela con lui — disse Mike, mentre guardava il musicista che, quadruplicato, suonava quattro diverse armoniche. Tutti i mass-media sono censurati dalla FENU. Sono dieci, dodici anni che la Terra non ha piu notizie obiettive della guerra. E gia tanto che non abbiano messo un attore al tuo posto e non gli abbiano dettato le battute.

— E sulla Luna va meglio?

— Per quanto riguarda le trasmissioni pubbliche, no. Ma poiche li tutti sono legati alla FENU, e abbastanza facile scoprire quando mentono spudoratamente.

— Ha tagliato completamente la parte sul condizionamento.

— E comprensibile. — Mike alzo le spalle. — Hanno bisogno di eroi, non di automi.

L’intervista di Marygay venne trasmessa un’ora dopo, e anche con lei avevano fatto la stessa cosa. Ogni volta che aveva detto qualcosa contro la guerra o contro l’esercito, sullo schermo appariva un piano d’ascolto della donna che l’intervistava, e che annuiva con aria saggia mentre, fuori campo, una perfetta imitazione della voce di Marygay snocciolava una serie di stupidaggini.

La FENU ci pagava vitto e alloggio per cinque giorni a Ginevra, ed era un posto buono come un altro per cominciare l’esplorazione della nuova Terra. La mattina dopo ci procurammo una guida, che era un libretto spesso un centimetro, e prendemmo l’ascensore per il pianterreno, decisi ad arrivare fino al tetto senza farci sfuggire niente.

Il pianterreno era uno strano miscuglio di storia e d’industria pesante. La base dell’edificio copriva una buona parte di quella che era stata un tempo la citta di Ginevra, e parecchi degli antichi edifici erano stati conservati.

In generale, pero, era tutto baccano e trambusto: grossi camion che arrivavano dall’esterno, spargendo nuvole di neve; chiatte che sbattevano rombando contro i pilastri del molo (il fiume Rodano passa in mezzo a quella grande distesa); c’erano persino alcuni piccoli elicotteri che trafficavano di qua e di la, coordinando le operazioni e tenendosi alla larga dai sostegni e dalle travature che reggevano il cielo grigio del primo piano, quaranta metri piu su.

Era una meraviglia, e saremmo rimasti a guardare per ore e ore, ma saremmo morti congelati in pochi minuti, con quelle cappe leggere che avevamo addosso, in quel vento e in quel freddo. Decidemmo che saremmo tornati un altro giorno, vestiti in modo piu pesante.

Il piano di sopra veniva chiamato primo piano, contrariamente alla logica di noi americani. Marygay mi spiego che in Europa lo hanno sempre numerato in quel modo. (Era buffo: ero stato a un migliaio di anni-luce dal Nuovo Messico, ma quella era la prima volta che avevo attraversato l’Atlantico). Era il cervello dell’organismo, dove stavano i burocrati e gli analisti del sistema e i loro aggeggi criogenici.

Ci fermammo in un grande atrio silenzioso che, stranamente, aveva odore di vetro. Una parete era occupata da un enorme cubo olovisivo che mostrava l’organigramma di Ginevra: un’esile piramide arancione con decine di migliaia di nomi collegati da linee, dal sindaco che stava in vetta fino agli 'addetti alla sicurezza dei corridoi' che stavano alla base. I nomi si spegnevano e venivano sostituiti da altri, quando qualcuno moriva o veniva licenziato o promosso o retrocesso. Era una forma lucente e mutevole, e sembrava il sistema nervoso di una creatura fantastica. E in un certo senso, ovviamente, lo era.

Nella parete di fronte al cubo olovisivo c’era una vetrata affacciata su una grande sala: una targa la indicava come KONTROLLEZIMMER. Dietro la vetrata c’erano centinaia di tecnici, in file e colonne ben ordinate, ognuno con la sua console e un olovisore semipiatto circondato da quadranti e interruttori. La sala aveva un’atmosfera elettrica, indaffarata; quasi tutti avevano una cuffia con microfono incorporata, e parlavano con altri tecnici mentre scarabocchiavano su una tabella o manovravano gli interruttori; altri pestavano sui tasti della console, con la cuffia penzolante dal collo. C’erano pochissimi posti vuoti, e i loro proprietari se ne andavano in giro con aria d’importanza. Un distributore automatico di caffe percorreva lentamente una fila, per poi svoltare in quella seguente.

Attraverso il vetro si sentiva appena un lieve brusio, ma all’interno doveva esserci un baccano d’inferno.

Nell’atrio c’erano solo altre due persone, e le sentimmo dire che andavano a vedere 'il cervello'. Le seguimmo per un lungo corridoio fino a un’altra vetrata, piu piccola in confronto a quella affacciata sulla Sala Controllo: dava sui computer che facevano funzionare Ginevra. L’unica illuminazione era costituita dalla fioca, fredda luce azzurra proveniente dalla sala sottostante.

La sala del computer era relativamente piccola, in confronto; piu o meno come due campi da tennis. Gli elementi dei computer erano scatoloni grigi di varia grandezza, collegati da un labirinto di gallerie di vetro ad altezza d’uomo che avevano portelli a intervalli regolari. Evidentemente, quel sistema consentiva di accedere a un elemento per volta, per le riparazioni, mentre il resto della sala veniva mantenuto a una temperatura prossima allo zero assoluto, che favoriva la superconduttivita.

Sebbene non ci fosse l’attivita nervosa della sala controllo, e il frenetico trambusto del piano terreno, nella sua staticita la sala computer era piu impressionante. Dava la sensazione di poteri immensi e inconoscibili saldamente imbrigliati: un tempio dell’ordine e dell’intelligenza.

Gli altri due visitatori ci dissero che a quel piano non c’era nient’altro di interessante, solo sale di riunione e uffici, e funzionari indaffarati. Tornammo all’ascensore e salimmo al secondo piano, che era il principale centro commerciale.

Li la guida ci fu molto utile. La galleria era formata da centinaia di negozi e di mercati 'all’aperto', disposti a griglia su una pianta rettangolare, con marciapiedi mobili che si intrecciavano e delimitavano i blocchi in cui erano radunati i negozi dello stesso tipo. Andammo sul corso principale, che era una capricciosa ricostruzione di un villaggio medievale. C’era una chiesa barocca, il cui campanile, grazie a un’illusione olografica, saliva fino al terzo e al quarto piano. Mosaici a muro con scene religiose primitive, ciottoli disposti in motivi complicati, una fontana con l’acqua che sgorgava dalle fauci dei mostri… Comprammo un grappolo d’uva da un fruttivendolo all’aperto (l’illusione svani quando ritiro un biglietto con le calorie e timbro il mio libretto annonario) e ci incamminammo lungo gli stretti marciapiedi di mattoni. Ci piacque moltissimo. Ero felice che la Terra avesse ancora il tempo, l’energia e le risorse per realizzare cose del genere.

C’era una scelta vastissima di oggetti e di servizi, e noi avevamo una quantita di danaro, ma avevamo perduto l’abitudine di fare acquisti, credo, e non sapevamo per quanto tempo sarebbe durato il nuovo patrimonio.

(Avevamo effettivamente un patrimonio, nonostante quello che ci aveva detto il generale Botsford. Il padre della Rogers era un avvocato fiscalista formidabile, e lei aveva passato parola: dovevamo pagare le tasse solo per la percentuale stabilita per il nostro reddito medio annuo. Cosi io mi ritrovavo con 280.000 dollari.)

Saltammo il terzo piano, che era riservato quasi tutto alle comunicazioni, perche l’avevamo girato e rigirato tutto il giorno prima, quando eravamo andati a fare le interviste. Io provai la tentazione di andare a scambiare due parole con il tale che mi aveva combinato lo scherzetto delle dichiarazioni, ma Marygay mi convinse che sarebbe stato inutile.

La montagna artificiale di Ginevra e fatta a gradini, come una torta nuziale: i primi tre piani e il pianterreno hanno un diametro di circa un chilometro e un’altezza di circa cento metri: dal quarto al trentaduesimo piano l’altezza e circa la stessa, ma il diametro e piu o meno la meta. I piani dal trentatre al settantadue formano il cilindro superiore, circa 300 metri di diametro per 120 d’altezza.

Il quarto piano, come il trentatreesimo, e un parco: alberi, ruscelli, animaletti. Le pareti sono trasparenti, e

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