corso circolare, e finalmente libere salutano il vento che le oltrepassa.

Volto la schiena, e corro, prima lungo la strada, poi, quando la strada piega, continuo diritto verso di te, nei campi, attraverso i boschi, nella pioggia battente, nel vento che mi soffoca, e vedo tutto e non vedo nulla, e ho sempre davanti agli occhi la vista di quelle logore pale di mulino, che salutano, salutano, salutano.

DICIANNOVE

Mi arrampico su pendii, supero palizzate, guado torrenti. Rami e foglie morte mi sferzano e mi impacciano. Gli animali selvatici scappano via, gli uccelli sobbalzano e si alzano in volo e mi lascio dietro il vapore del mio respiro, traforato dalla pioggia, cancellato dal suo tranquillo bombardamento. Corro e salto e inciampo, mi getto attraverso rami, siepi e cespugli, mi tuffo in tutta la fragile riserva dell’inverno imminente finche non vedo il castello.

Il castello: talismano, emblema, si leva grigio dalla grigia forma degli alberi gocciolanti davanti a me. In questo momento, nella nebbia della pioggia gelida, non sembra affatto una cosa nata dalla terra, ma un’invenzione delle nuvole, un sogno che sorge dall’aria brumosa.

Supero il vecchio ponticello vicino al frutteto, e le sue travi sospese squittiscono e restano a oscillare sui cavi. Oltrepasso il giardino murato, l’aranciera, i depositi dei vasi, i nudi alberi ornamentali, le serre infrante, le fredde intelaiature dei tubi di riscaldamento, pile di travi marce e piccole dipendenze annerite, davanti alle quali il terreno e disseminato di latte, vecchie ruote, bastoni e schegge, pentole e padelle. Corro e le mie gambe sono stanche e cedono, la testa mi martella, la gola mi brucia; corro sulle pietre ricoperte di muschio, sulle lastre d’ardesia cadute, sui mucchi fradici di vecchia segatura, e mi ritrovo, finalmente, su un lato del castello.

Tutto sembra in pace. Un camion e fermo davanti al ponte sul fossato. Sui prati, l’accampamento degli sfollati manda un po’ di fumo azzurro pallido a fondersi con la pioggia. Non vedo nessuno. Perfino i saccheggiatori sembrano aver abbandonato la loro postazione: non pendono piu dalla torre e hanno lasciato solo la vecchia pelle di tigre, appesantita, pendula, agitata dal vento, a salutare il nuovo giorno.

Mi lascio cadere nei cespugli, col petto che si gonfia nel tentativo di prendere fiato, mentre cerco di recuperare le forze e di pensare a cosa fare adesso.

La pioggia, ubiqua, continua a cadere dal cielo basso e pesante, mi imbeve gocciolando dai rami neri e spogli, rovesciandosi dalle ultime foglie del colore della decomposizione: hanno forme frastagliate come mani contorte e restano tenacemente attaccate, ma con fatica, in lotta perenne col vento che le visita. Le raffiche disperdono il fumo che si leva dalle tende e fa scricchiolare e sbattere i rami sopra di me. Mi tiro su e mi inginocchio, e mi imbevo di ogni particolare del castello: le pietre annerite dalla pioggia, le finestrelle disperse sui muri, il buco sul tetto dove sbatte una tela cerata grigia e, sulla torre piu lontana, la pelle inzuppata, a brandelli, della tigre artica, da cui, a ogni raffica di vento, esplode una miriade di goccioline; e mi sembra di poter accogliere ogni pietra scheggiata e rimossa, di vederle tutte disposte in un progetto davanti a me, trasformate in un diagramma nella mia mente.

Avanti, dico al mio corpo tremante ed esausto. Muoviti adesso. Ma ha bisogno di qualcosa di piu, di piu tempo, non riesce ancora a funzionare. Estraggo la pistola automatica, quasi che il suo peso metallico possa contagiarmi con la sua determinazione. Mi fanno male le mani e la testa, dove la pioggia lava la ferita. Le gambe si irrigidiscono. Tremo, e fisso con confusa incredulita i vapori che si levano dalle gambe e dalla faccia e dalle mani e dal corpo, pensando che questo velo fumante sia il mio corpo che evapora, la mia determinazione che si dissolve nella pioggia. Poi riprende a soffiare il vento, e spazza via il mio sudario.

Passo in rassegna le finestre e la merlatura del castello in cerca di te, mia cara, e ho il disperato bisogno di vedere il tuo volto. Guarda giu, guarda giu, perche non guardi giu, a vedere uno di cui la luogotenente sarebbe stata fiera, uno come lei, un assassino adesso, come il suo spirito velato, come un fantasma, nascosto fra i cespugli con una pistola, coperto di fango e di foglie, sfregiato dalla battaglia e da un proiettile, pronto a progettare l’attacco e la liberazione: non un profugo, ma un nuovo soldato, per te.

Sopra il sibilo grigio della pioggia si leva un rumore che si raccoglie e gonfia oltre il castello. Riconosco il rombo di un motore, che cresce, cala, cambia, e allora sento il clacson del camion, suonato con violenza in qualche punto, ancora distante, del viale d’accesso. Esco di corsa dai rami, inciampando e scivolando sull’erba intrisa di pioggia, puntando verso la facciata del castello e il ponte sul fossato. Devono essere partiti all’improvviso, richiamati dalla radio; potrebbero essere andati tutti, lasciando il castello incustodito. Scivolo sulla ghiaia e per poco non cado. Supero il camion, corro sul ponte e mi infilo nel passaggio coperto sotto il corpo di guardia. La saracinesca mi blocca la strada: la scuoto e cerco di sollevarla, invano. Dietro di me, sento il motore del camion, che si fa sempre piu vicino.

Dall’altra parte del cortile, appena visibile oltre il cannone, un soldato esce dalla porta principale. Mi immobilizzo. Lui mi vede, torna dentro e riappare all’improvviso con un fucile, spianandolo contro di me. Non mi viene nemmeno in mente di sparargli con la pistola che tengo in mano. Invece mi abbasso, mi volto e corro via; i colpi del fucile scheggiano le pietre mentre io mi lancio oltre il ponte. Il camion sta risalendo dal viale, con le luci accese. Qualcuno si sporge da una finestra, prendendo la mira su di me. Sento un altro sparo.

Provo ad aprire la portiera del camion parcheggiato, ma e chiusa a chiave. Attraverso il sentiero di ghiaia verso la riva erbosa che finisce nel fossato, pensando di usare l’argine come riparo, ma l’erba e troppo bagnata; faccio pochi passi e poi scivolo verso il basso. Cado nel fossato, finisco nell’acqua e mi dibatto disperatamente, boccheggiando in quella stretta gelida, cercando di trovare un appoggio nel pendio ripido sul fondo, sempre reggendo con una mano la pistola e tentando con l’altra di afferrare l’erba o il terreno per tirarmi fuori.

Sollevo spruzzi d’acqua, appoggio la schiena all’argine erboso e guardo in su. Un soldato si sporge dalla merlatura, puntandomi contro un fucile. Agita la mano, grida qualcosa. Io cerco di stare in equilibrio e prendo la mira; la pistola rincula con violenza, una volta, due volte, poi si ferma. Dall’alto delle mura cadono schegge di pietra. Tiro ancora il grilletto, poi getto via l’inutile pistola. Il soldato e scomparso, ma adesso riappare: sbircia, poi si sporge dal parapetto e grida qualcosa. Volto la schiena, e comincio a issarmi con entrambe le mani per uscire dal fossato, aspettando per tutto il tempo lo sparo, il terrificante colpo di maglio di un proiettile che mi colpisce. Invece sento solo risate.

Dimenandomi goffo e impacciato dai vestiti appesantiti dall’acqua, mi tiro all’asciutto e risalgo l’argine. Vola una bottiglia e colpisce l’erba vicino a me, rimbalzando nell’acqua sul fondo. Raggiungo il sentiero di ghiaia e mi metto in piedi, barcollando, e alzo gli occhi alle mura. Il soldato agita ancora il braccio. Adesso i due camion sono parcheggiati insieme. Alcuni soldati stanno scaricando qualcosa dal cassone del camion che e appena ritornato; altri sono fermi a guardarmi. Un’altra bottiglia parte dalla merlatura, frantumandosi dopo un volo arcuato sulla ghiaia vicino ai miei piedi. Uno dei soldati del camion comincia ad avanzare verso di me, e col fucile mi fa cenno di avvicinarmi. Mi metto a correre verso gli alberi.

Mentre attraverso di corsa il prato sento un grido, e mi volto per vedere il soldato che torna verso i camion. Gli altri non mi inseguono ne mi sparano. Si radunano dentro il castello.

Mi acquatto fra i cespugli, rabbrividendo. Il mio corpo trema incontrollabilmente per il freddo, e devo farmi forza per convincermi di potermi scaldare ancora. Sulla merlatura, un soldato ubriaco agita una bottiglia, poi si volta e si allontana. Io guardo per terra, a quattro zampe, boccheggiando come un amante frustrato verso il terreno insensibile, inghiottendo il mio stesso respiro. Non riesco a mantenere nemmeno questa patetica postura, perche cedono sia le braccia sia le gambe; devo rotolarmi su un fianco, raggomitolato e fremente fra i cespugli come un animale spaventato e ferito.

Avevo creduto di essermi dimostrato impetuoso e temerario, ma il castello mi respinge. Sono chiuso fuori, e i soldati, sappiano o no che sono stato io a uccidere la loro luogotenente, sembrano disinteressarsi a me e non mi giudicano degno della fatica di inseguirmi. E tu, mia cara, non sei da nessuna parte. La pistola non e servita a niente: due colpi inutili, poi niente. E cosa avrei potuto fare, comunque, con quella roba? Stampella, lapide, tubo, mazza, lancia: le armi da fuoco hanno molti usi, molteplici effetti. Forse alterano le menti oltre che le anatomie; forse le loro emissioni entrano sotto la pelle non in un solo modo, ma in molti. Sono forse loro a decidere, piu che quelli che le impiegano? Le loro bocche davvero parlano cosi forte, le loro canne traboccano di morte e mutilazioni con tale efficacia da parlare piu forte di noi che, rifuggendo dal loro uso, non riusciamo a vedere che il danno maggiore lo procurano dietro di loro, piuttosto che davanti?

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