La luogotenente si merita la mia ira per quello che ha sottratto a noi, compresa la possibilita di fuggire, pochi giorni fa, quando ci ha fermato su questa stessa strada. Quella prima intromissione ha condotto a tutto il resto: alla occupazione della nostra casa, alla distruzione del lascito della nostra famiglia, alla luogotenente che ha preso il mio posto accanto a te e — come doveva essere nelle sue intenzioni — al progetto del mio assassinio. Quel suo primo sparo, che mi ha abbattuto: quello e stato nell’agitazione del momento. Ma quando mi hanno messo nella jeep, mi hanno portato via dal castello, nell’ora tradizionale delle esecuzioni, l’hanno fatto a sangue freddo, mia cara.

La tolleranza che ho ostentato e provato nei confronti della nostra luogotenente era un residuo di epoche piu civili, quando grazie agli agi della pace potevamo concederci l’un l’altro una simile cavalleria. Pensavo di dimostrare, con un’esibizione di civilta, tutto il mio disprezzo per questi giorni disperati e per la volgare arroganza della luogotenente, ma oltre un certo grado una simile gentilezza diventa controproducente. Devo lasciarmi infettare dalla natura violenta di questi tempi, devo aspirare il loro respiro contaminante, accettare il loro fatale contagio. Guardo la pistola che ho in mano. Eppure, questa e la maniera della luogotenente. Ucciderla con l’arma che lei avrebbe potuto usare per uccidere me sara anche poetico — giustizia o ingiustizia poetica — ma e una rima troppo facile per i miei gusti.

Il vento mi accarezza le guance e mi tira per i capelli. Il mulino si tende, sembra sul punto di muoversi ancora, poi si blocca. Poso la pistola sul pavimento, la riprendo in mano, controllo che abbia la sicura e me la infilo nella cintura dei pantaloni, dietro la schiena. Mi guardo intorno, alla ricerca di una leva, di qualcosa che governi il meccanismo.

Corro in cima alle scale scheggiate, e ho un breve attacco di vertigini per lo sforzo, poi entro nell’oscurita degli ingranaggi di legno, dei longheroni, dei recipienti, delle tramogge; alla fine trovo una leva di legno simile a quelle delle vecchie cabine ferroviarie, unita per mezzo di barre di ferro arrugginito a un diaframma di legno nel muro, attraversato da un assale orizzontale che scompare all’esterno. Tiro la maniglia. Un rumore come un sospiro, e un gemito. Una sensazione di potenza liberata pervade il mulino, e l’asta orizzontale comincia a ruotare lentamente, facendo muovere i cigolanti ingranaggi di legno che convertono il movimento orizzontale in verticale e lo trasmettono alle macine del piano di sotto. Mi precipito di nuovo da basso, quasi cadendo per la fretta in fondo ai gradini.

Le due grandi macine girano lentamente lungo il loro percorso, scuotendo l’intero mulino con il loro rimbombo basso e determinato. Rallentano mentre le osservo, in corrispondenza del calo del vento, e poi riprendono velocita. Ecco una fine diversa, ecco una poesia piu appropriata. Sono scosso da una strana eccitazione e la fronte mi si imperla di sudore. Devo assolutamente farlo, finche la risolutezza mi infiamma.

Le mie mani scivolano sotto le ascelle della luogotenente e la tiro su. Lei emette un debole lamento. La poso accanto al grande cerchio di pietra del binario delle macine, facendola inginocchiare come una fedele nel tempio. Sorreggo il peso del suo tronco, impedendole di cadere in avanti. Ha un fianco intriso di sangue. Una ruota passa lentamente davanti a lei. Mi tremano le mani mentre la tengo e faccio passare la ruota; poi lascio che la luogotenente si protenda in avanti, con le spalle posate sul bordo del binario e la testa sulla strada della ruota, pronta al sacrificio. Mi sporgo all’indietro, e il cuore martella impazzito; la ruota di pietra che segue romba poderosa e letargica verso il cranio della luogotenente, gettando un’ombra sulla sua testa. Chiudo gli occhi.

Un suono terribile e stridente mi scuote, quindi si placa. Apro gli occhi. La testa della luogotenente e incastrata fra la macina e il binario, ma e intatta. Credo di sentirla emettere una specie di piagnucolio. Corro alla porta. Una debole brezza ansima davanti alle pale bucate, immobili, bloccate. Torno alla macina e cerco di fare arretrare le ruote per liberare la testa della luogotenente, ma si rifiutano di muoversi. Tremo di rabbia, urlo e cerco di spingerle nella direzione opposta, per frantumarle il cranio con le mie sole forze, ma anche cosi so che non spingero con tutta la mia potenza, e il risultato e lo stesso, e lei resta incastrata ma incolume, con la testa che blocca le pietre.

Cosa sto cercando di fare? Potrei comunque toglierla di qui, farla rinvenire e chiederle scusa? O vivro col ricordo delle pietre che si muovono e del suo cervello che schizza sulle mole? Scoppio a ridere, lo ammetto: non c’e nient’altro da fare. Non posso ucciderla e non posso liberarla. Dalla radio accanto al cadavere vicino alla porta esce un improvviso suono gracchiante. Mi allontano dalla luogotenente, lasciandola inginocchiata li, premuta e bloccata, una supplice per meta prostrata davanti a un tondo altare di pietra. Sulla porta di quel fortino improvvisato mi volto verso il vento, poi salto fuori, correndo via, volgendo il viso verso il vento e verso di te, mio castello.

Mi sferza una pioggia gelida, mia cara, ma io rivolgo la faccia anche a te, in quella vecchia torre rovinata, e finalmente le gocce nascoste nella brezza mi donano le lacrime per tutti noi. Mi fermo alla jeep, come se il mio ultimo mezzo di trasporto potesse in qualche modo benedire il mio viaggio, ma non ha nulla da offrirmi. Mi avvio da solo per la strada nell’aria fredda e cammino nella brezza intrisa di pioggia lungo i campi desolati.

Siamo creature liquide, mia cara, e questa pioggia contagiosa sembra qualcosa che tu mi invii, affinche io possa afferrare i suoi fili ed esserne guidato. Il mio spirito, lontano da quella costruzione di legno e pietra, comincia a risollevarsi, al pensiero di tornare da te. Ero sicuro che non sarebbe mai successo, ma adesso ne ho di nuovo la possibilita. Posso trovare la maniera di entrare, o aspettare che gli uomini della luogotenente se ne vadano, senza comandante, in fuga. Posso riscattarti, se lo vuoi.

Credo, solo per un istante, di udire un grido, che mi insegue dal mulino, e mi volto un’ultima volta a guardarlo, ma una voce dovrebbe lottare contro il rumore della pioggia, e potrebbe essere stata semplicemente la radio; in piu, non sono nemmeno sicuro di aver sentito davvero qualcosa; mi volgo un’altra volta verso il castello, a testa bassa contro la pioggia.

Alla fine credo di avere uno scopo: portarti via. Solo te, nulla dei nostri averi, delle cose, senza la minima intenzione di tornare nel luogo che e stato la nostra casa. La luogotenente e i suoi uomini ci hanno liberati dai nostri fragili possessi e dalla lealta alle pietre del castello, e cosi ci lanciano, insieme e da soli, nell’aria libera della fuga, finalmente consci della sua forza pervasiva in tutta la sua ribelle eloquenza. Le dita della luogotenente possono averti sottratta a me per un breve istante, ma tu tornerai a essere mia come sei sempre stata.

Guidami, guidami, vento. Guidami con la tua resistenza e portami dalla mia amata, conducimi al nostro rifugio, mio profugo infido. L’anello, penso, fermandomi.

Avrei dovuto strappare dalla mano della luogotenente l’anello d’oro bianco con rubino, quello che lei ti aveva preso il primo giorno, sulla carrozza, su questa stessa strada. Mi volto, esitando.

Sento in questo istante il rumore di un motore, dalla direzione del castello. Mi riparo dietro un vecchio carro rovesciato sul ciglio della strada, con una grande ruota di legno, a raggi, puntata verso il cielo. Il suono proviene da uno dei camion della luogotenente, che avanza con una faccia verde oliva immobilizzata nel rictus della griglia e gli occhi luminosi dei fari. Supera a tutta velocita il mio nascondiglio, trascinandosi dietro nubi di fumo, con le ruote che mandano un rumore lacerante solcando il fondo stradale. Il telone che copre l’intelaiatura d’acciaio sbatte e schiocca nella scia. Noto che dentro sono seduti degli uomini, impegnati a trafficare con le armi.

Mi rimetto in piedi accanto al carro, guardando il camion che corre in direzione del mulino. La scia del camion mi avvolge, mi scuote, finche non torna la brezza. Decido che non mi vergognero del sollievo che provo in questo momento pensando a lei. Che la trovino loro, che la salvino. Non si merita niente di meno, immagino. E stata una follia trattarla cosi. Dietro di me, gli alberi oscillano, qualche foglia morta si leva da un fosso e un’altra raffica gelida mi fa ondeggiare, tremare.

In lontananza, vedo accendersi le luci posteriori degli stop, e il camion si ferma accanto alla jeep ribaltata. Gli alberi fra me e il mulino si piegano, lentamente, poi tornano in posizione, e dalle cime scure si alzano in volo le forme di uccelli neri.

Il camion, minuscolo per la distanza, fa retromarcia vicino al mulino. Mi volto verso ovest, verso il castello, e la pioggia mi punge, sotto la sferza del vento. Il camion si e fermato. Gli uomini stanno saltando giu. Poi c’e un suono improvviso, proprio accanto a me e faccio un salto, portandomi le mani tremanti alla schiena, in cerca della pistola.

Ma e solo un vecchio straccio, un sacco impigliato nella ruota del carro, che fa vela nel vento e fa muovere la ruota.

Mi strofino gli occhi e osservo le figurine che corrono verso il mulino: saltano giu dal cassone, oltrepassano il fosso, scavalcano di slancio i muretti, corrono sul terreno aperto, si fermano, saltano, corrono, si slanciano all’insu, il primo si avvicina alla porta del mulino.

Dove le braccia di legno, benche infrante, benche lacere nel tessuto che le ricopre, avanzano sicure nel loro

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