confusione — si mette un sacchetto o una provetta nel posto sbagliato e ci si scrive sopra il nome sbagliato — e la prova risulta incomprensibile o, peggio ancora, da risposta a interrogativi che possono scagionare un colpevole o condannare un innocente. Kay Scarpetta ripensa alle dentiere, allo stagista che aveva scambiato la dentiera del vecchietto con quella della donna obesa. Una semplice svista, ma dalle conseguenze potenzialmente devastanti.

«Non capisco perche non vuoi dirlo a Benton» insiste Marino, prendendo un bicchiere di acqua dal comodino. «Perche non posso farmi una birretta? Cosa ci sarebbe di male?»

«Cosa ci sarebbe di bene?» ribatte lei. Ha in grembo una serie di carte. Sfoglia verbali, rapporti e referti alla ricerca di qualche informazione illuminante sul conto di Gilly Paulsson e Ted Whitby. «L’alcol rallenta il processo di cicatrizzazione» dice. «E, nel tuo caso, e pericoloso.»

«Ti riferisci a ieri sera?»

«Senti, Marino, non devi chiedere il permesso a me, okay? Se vuoi berti una birra, ordinatela.»

Marino e titubante e Kay Scarpetta ha la sensazione che in qualche modo gli dispiaccia che lei non gli dia degli ordini. Ma e una sciocchezza e poi, ogni volta che lei gli ha fatto delle raccomandazioni, lui le ha ignorate. Inoltre, non vuole fargli da secondo pilota nel suo volo spericolato su e giu per la vita. Marino guarda il telefono con le mani in grembo, probabilmente riflettendo se chiamare o meno il servizio in camera, poi beve un sorso di acqua.

«Come ti senti adesso?» gli chiede Kay Scarpetta, sfogliando le carte. «Vuoi un altro Advil?»

«No, grazie, sto bene. Piuttosto che l’Advil, prenderei una birretta.»

«Fai come vuoi» replica lei, leggendo il lungo elenco di lesioni e lacerazioni riportate da Whitby.

«Sei sicura che non mi denuncera?» domanda Marino.

La guarda fisso, spaventato. E normale che lo sia, pensa Kay. Una denuncia di violenza carnale sarebbe la sua rovina professionale, anche se in seguito venisse accertata la sua innocenza. Perderebbe il lavoro e rischierebbe comunque la condanna, perche e un omone grande e grosso e la signora Paulsson sa interpretare molto bene la parte della vittima. Il pensiero che Marino venga condannato ingiustamente la manda in bestia.

«Sicurissima» risponde. «Le ho detto chiaro e tondo che non era credibile e le ho messo paura portando via da casa sua tutte quelle presunte prove. E poi la tua cara Suz non vuole fare sapere dei suoi giochetti erotici. Posso chiederti una cosa, Marino?» Alza gli occhi dai fogli che stava leggendo. «Se sua figlia Gilly fosse stata ancora viva, pensi che si sarebbe comportata in maniera diversa, ieri sera? Lo so, sono tutte congetture, ma… Il tuo istinto che cosa dice?»

«Che Suz fa tutto quello che le passa per la testa» risponde lui, in un tono piatto che pero nasconde risentimento, rabbia e vergogna.

«Ti e parsa ubriaca?»

«Euforica» replica lui.

«Perche aveva bevuto o perche?»

«Non l’ho vista ne impasticcarsi, ne fumare ne farsi. Ma sono tante le cose che non ho visto.»

«Bisognerebbe che qualcuno andasse a parlare con Frank Paulsson» dice Kay, scorrendo un altro referto. «Aspettiamo i risultati delle analisi e poi se mai chiamiamo Lucy.»

Marino fa una faccia contenta e sorride. «Per la miseria! E un’idea geniale! Lucy ha il brevetto di pilota. Potremmo mandarla in pasto a quel maiale.»

«Infatti.» Kay Scarpetta gira pagina e sospira. «Niente di niente» dichiara. «Non c’e nulla di illuminante in queste carte. Gilly Paulsson e morta per asfissia e aveva scaglie di vernice e di metallo in bocca. Le lesioni di Ted Whitby sono coerenti con il fatto che e stato investito da un trattore. Per sicurezza, potremmo vedere se Whitby e i Paulsson avevano qualcosa in comune, se c’era un legame fra loro.»

«Lei ce lo saprebbe dire» borbotta Marino.

«A lei non lo chiediamo.» In questo caso si, gli da degli ordini. Pete Marino non deve chiamare Suzanna Paulsson. «Non esageriamo.» Lo guarda.

«Non avevo intenzione di chiamarla io, se e questo che intendi. Dico solo che forse conosceva Whitby. Magari partecipava anche lui ai suoi giochetti. Magari facevano parte dello stesso club di pervertiti.»

«Non abitano vicino» dice Kay Scarpetta controllando un foglio nella pratica relativa a Whitby. «Lui stava dalle parti dell’aeroporto. Questo non vuol dire nulla, naturalmente. Domani, quando io vado in laboratorio, fai qualche indagine.»

Marino non le risponde. Non ha voglia di parlare con la polizia di Richmond.

«Ti conviene prendere il toro per le corna» gli dice Kay Scarpetta, chiudendo le cartelline.

«In che senso?» Pete Marino guarda il telefono, forse ancora indeciso se ordinarsi una birra o meno.

«Lo sai, in che senso.»

«Sei odiosa, quando fai cosi» ribatte lui immusonito. «Perche ti esprimi in maniera cosi indiretta? Perche non ti spieghi? Lo so, lo so, ci sono uomini che apprezzano le donne che parlano a monosillabi.»

Kay Scarpetta posa le mani sui fogli che ha in grembo e aspetta che Marino si spieghi. Fa una faccia divertita. E tranquilla, convinta di essere dalla parte della ragione.

«Che toro?» riprova lui, incapace di reggere il silenzio troppo a lungo. «Dimmi che toro dovrei prendere per le corna, secondo te.»

«La tua paura» risponde Kay Scarpetta. «Devi superarla. Temi la polizia perche continui a pensare che la Paulsson ti abbia denunciato per violenza carnale. Be’, non lo ha fatto e non lo fara, mettitelo bene in testa. E vinci la paura.»

«Non e tanto la paura, che mi disturba, quanto l’essermi comportato da stupido» ribatte Marino.

«Bene. Allora domani chiama l’ispettore Browning o chi per lui. Perche se non lo fai, ti comporti di nuovo da stupido. Io adesso vado in camera mia» aggiunge poi, alzandosi e rimettendo la poltrona vicino alla finestra. «Ci vediamo nell’atrio alle otto.»

34

Kay Scarpetta beve un sorso di Cabernet, sdraiata sul letto. Non e particolarmente buono, ha un retrogusto troppo forte, ma finisce comunque il bicchiere. E sola nella sua camera d’albergo. Ci sono due ore di differenza, fra li e Aspen, e forse Benton e a una cena di lavoro, o forse sta studiando il caso segreto di cui si rifiuta di parlarle.

Si sistema i cuscini dietro la schiena, posa il bicchiere vuoto sul comodino e guarda il telefono. Poi si volta verso il televisore e medita se accenderlo o meno. Decide di lasciar perdere, si gira verso il telefono e tira su la cornetta. Compone il numero di cellulare di Benton, che le ha raccomandato di non chiamarlo sul fisso. Era deciso, quando glielo ha detto. “Non chiamarmi sul numero di casa perche non rispondo” sono state le sue parole.

“E assurdo” ha replicato lei. Ripensandoci, le sembra che sia passata un’eternita, da allora. “Perche non rispondi al telefono di casa?”

“Perche non voglio distrazioni. Davvero, Kay, non rispondero a nessuna chiamata. Se mi vuoi parlare, telefonami sul cellulare. Non e contro di te, credimi.”

Benton risponde dopo il secondo squillo.

«Che cosa stavi facendo?» gli chiede Kay, guardando lo schermo spento del televisore di fronte al letto.

«Ciao» dice lui. «Sono nel mio studio.»

Kay visualizza la camera dell’appartamento di Aspen che Benton ha trasformato in studio e lo immagina seduto alla scrivania, davanti al computer acceso. Sta lavorando e Kay si sente sollevata al pensiero che sia a casa.

«Io ho avuto una giornata difficile» gli spiega. «E tu?»

«Come mai e stata una giornata difficile?»

Kay incomincia a raccontargli di Marcus, ma non vuole entrare troppo nei dettagli. Allora gli parla di Marino, ma non trova le parole per spiegargli tutta la storia. Si sente annebbiata, stanca, e un po’ a disagio. Avrebbe voglia di essere con lui, ma non di fargli confidenze al telefono. Cambia discorso: «Parlami di te, piuttosto. Sei andato a sciare?».

«No.»

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