«Troppo tardi» replica lui.

«Bessie, cara, il mio solito whisky» ordina un signore seduto a un tavolo vicino.

Pogue l’ha visto arrivare poco prima a bordo di una Cadillac nuova fiammante, grande, metallizzata. E vecchio: avra almeno ottant’anni, se non ottantuno o ottantadue. Indossa un completo di seersucker bianco e azzurro, camicia bianca e cravatta azzurra. Bessie gli va vicino sculettando e si dimentica di Pogue: come se non ci fosse piu, anche se lui non si e mosso di un millimetro. Per farsi trattare cosi, tanto vale andare via sul serio. Apre la pesante porta scura ed esce nel parcheggio di ghiaia, dirigendosi verso gli ulivi e le palme che costeggiano la strada. Si ferma fra gli alberi e guarda il distributore di benzina della Shell dall’altra parte di North Twenty-sixth Avenue. Fissa la grande conchiglia gialla che brilla nella notte, con l’aria che gli accarezza le guance.

La conchiglia illuminata, chissa perche, gli fa tornare in mente le bibite nel contenitore a forma di arancia. Forse ogni tanto sua madre gliene comprava una in autostrada, quando si fermava a fare benzina. Si, perche ogni tanto gliele comprava, ed e possibile che lo facesse quando viaggiavano dalla Virginia alla Florida, quando lo portava a Vero Beach da sua nonna. Sua nonna aveva i soldi, ne aveva un sacco. Ci andavano tutte le estati e alloggiavano in un posto che si chiamava Driftwood Inn. Edgar Allan Pogue non lo ricorda molto bene. Sa solo che era fatto di tronchi di legno e che la notte dormiva sullo stesso materassino di plastica gonfiabile con cui di giorno andava al mare.

Non era molto grande e le braccia e le gambe gli cadevano per terra di notte e nell’acqua di giorno. Dormiva su quello stretto materassino nel salotto, mentre sua madre stava nella camera da letto con la porta chiusa e l’unico condizionatore regolato al massimo. Dormiva male, sudava, aveva caldo e la pelle scottata dal sole gli si appiccicava alla plastica del materassino. Ogni volta che provava a girarsi era come staccarsi un cerotto. Ma era la sua vacanza. Una settimana tutti gli anni, sempre d’estate, sempre di agosto.

Guarda i fari delle macchine che sfrecciano nella notte, occhi bianchi e rossi nell’oscurita, poi si volta e aspetta il segnale del semaforo. Quando il semaforo scatta e le macchine si fermano, attraversa la prima corsia trotterellando e la seconda di corsa. Arrivato alla stazione di servizio, guarda la conchiglia gialla che galleggia luminosa nel buio e osserva un vecchio in calzoncini corti che fa il pieno alla sua auto. C’e anche un altro vecchio che fa benzina a un’altra pompa, con un vestito spiegazzato. Pogue resta nell’ombra e si muove furtivo verso la porta a vetri del negozio. La apre con un tintinnio e va dritto al distributore delle bibite. Una signora alla cassa sta pagando un sacchetto di patatine, una confezione da sei bottiglie di birra e la benzina. Non lo vede nemmeno.

Il distributore di bibite e vicino alla macchinetta del caffe. Edgar Allan Pogue prende cinque bicchieri di plastica con i relativi coperchi e va alla cassa. Sono bicchieri grandi, con alcuni personaggi dei cartoni animati. I coperchi sono bianchi, con un beccuccio per bere. Posa i bicchieri e i coperchi sul banco.

«Avete aranciata in arance di plastica con la cannuccia verde?» domanda alla cassiera.

«Come, scusi?» fa lei, corrugando la fronte. Prende in mano uno dei bicchieri. «Sono vuoti. Cosa fa, li riempie?»

«No» risponde. «Vorrei solo i bicchieri e i coperchi.»

«Non sono in vendita.»

«Ma io non voglio altro.»

La donna lo scruta da sopra gli occhiali da presbite e Edgar Allan Pogue si domanda che cosa vede, guardandolo cosi. «Non vendiamo bicchieri vuoti, le dico.»

«Se aveste quella bibita nelle arance con la cannuccia verde, la prenderei» risponde Edgar Allan Pogue.

«Quale bibita?» La cassiera si spazientisce. «Vede quel frigo? Tutto quello che abbiamo e li.»

«E una specie di aranciata, in un contenitore a forma di arancia con la cannuccia verde.»

La cassiera fa una faccia stupita e gli fa un sorriso con le labbra rosso fuoco che gli ricorda le zucche di Halloween. «Ah! Ho capito! Ho capito di che cosa sta parlando. Si, me la ricordo anch’io quella bibita. Non e piu in commercio da anni! Me l’ero dimenticata…»

«Allora prendo solo questi» insiste Edgar Allan Pogue.

«Va bene, mi arrendo. Meno male che sto per finire il turno.»

«E lunga, eh?»

«Non sa quanto.» Scoppia a ridere. «Si, si. Sembravano arance vere, con la cannuccia verde.» Edgar Allan Pogue la vede voltarsi verso la porta e sorridere al vecchio con i calzoncini corti che sta andando a pagare.

Pogue non lo degna di uno sguardo. Fissa la donna, i capelli ossigenati e spessi, la faccia rugosa incipriata. A toccarla, farebbe l’effetto di un’ala polverosa di farfalla. Il nome sulla targhetta e EDITH.

«Senta, i bicchieri glieli metto cinquanta centesimi l’uno e i coperchi glieli regalo» gli propone. «Adesso vada, che devo far pagare il signore.» Preme un tasto e apre il cassetto del registratore di cassa.

Pogue le porge una banconota da cinque dollari e le sfiora le dita mentre prende il resto. Edith ha mani fresche, agili e morbide. Edgar Allan Pogue sa che ha la pelle un po’ cascante, come tutte le donne di quell’eta. Esce nella notte umida, aspetta che il traffico si diradi e attraversa la strada come ha fatto poco prima. Si attarda qualche minuto sotto gli ulivi e le palme e guarda l’ingresso dell’Other Way, aspettando che non entri e non esca nessuno. Appena e solo, corre in macchina e si mette al volante.

33

«Dovresti dirglielo» dichiara Marino. «Anche se poi non succede niente, e giusto che sia al corrente di come stanno andando le cose.»

«E un modo per complicarsi la vita» replica Kay Scarpetta.

«No, e un modo per mettersi al sicuro.»

«Non sono d’accordo» insiste lei.

«Il capo sei tu.»

Marino e sdraiato sul letto della sua camera al Marriott di Broad Street e Kay Scarpetta e seduta sulla stessa poltrona di prima, che ha spostato in maniera da essere piu vicina a lui. Marino e grande e grosso, ma in pigiama sembra meno minaccioso. Ne indossa uno di cotone bianco, che Kay Scarpetta gli ha appena comprato in un grande magazzino, macchiato di arancione dove il disinfettante e penetrato nella stoffa. Marino sostiene che le ferite adesso gli fanno molto meno male. Kay Scarpetta si e cambiata e, invece del tailleur pantalone blu schizzato di fango, indossa calzoni di velluto beige, dolcevita blu e mocassini. Sono nella camera di Marino perche Kay non lo vuole nella propria e probabilmente pensa di non correre pericoli ad andare nella sua. Si sono fatti portare in camera dei panini e stanno chiacchierando.

«Non capisco perche non glielo vuoi dire» continua Marino, sondando il terreno. E curioso di sapere come vanno le cose fra lei e Benton. Insiste e a Kay da fastidio, ma non riesce a cambiare discorso.

«Domani mattina porto in laboratorio i campioni che abbiamo raccolto stamattina» gli dice. «Dobbiamo farli analizzare il prima possibile per capire se e stato un errore. Se di un errore si tratta, e inutile che lo dica a Benton. Un errore, anche se grave, non vuol dire niente e non pregiudica niente.»

«Tu pero non credi che sia stato un errore, vero?» Si appoggia ai cuscini e la guarda. Ha ripreso colore e ha lo sguardo piu vivace.

«Non so neanch’io che cosa credo» risponde Kay Scarpetta. «In realta non ha senso ne in un modo ne nell’altro. Se le tracce sul cadavere di Ted Whitby non sono frutto di una contaminazione, come ce le spieghiamo? Come e possibile che siano le stesse identiche di Gilly Paulsson? Tu hai una tua teoria?»

Marino riflette, guardando dalla finestra le luci del centro citta. «No, non me lo so spiegare neppure io» risponde. «L’unica teoria che mi viene in mente, per quanto strampalata, e quella che ho tirato fuori alla riunione. Ma volevo fare lo sbruffone.»

«Chi, tu?» lo prende in giro lei.

«Insomma, come possono esserci le stesse scaglie di metallo sul corpo dell’operaio e della ragazzina? Anche perche fra la morte di Gilly Paulsson e quella di Ted Whitby sono passate due settimane. E troppo strano» decide.

Kay Scarpetta prova quel senso di malessere che ha imparato a riconoscere come paura: l’unica spiegazione logica della presenza dello stesso tipo di tracce sui due cadaveri e che ci sia stata una contaminazione o uno scambio di etichette. E piu facile di quanto possa sembrare, in realta. Basta un attimo di distrazione, di

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