guardano nervosamente i loro vicini per capire cosa ci si aspetta da loro, e voi che siete sul palcoscenico sentite piedi che frusciano, sussurri e colpi di tosse. Non di rado ho desiderato che Cajkovskij, Bruch e Beethoven avessero avuto quell’accortezza.
Percio trovai strano il fatto. Quella volta il sottile, quasi subliminale, mormorio dei tamburi non trattenne il pubblico dal mostrare una leggera agitazione. Vidi una delle ragazze in uniforme del teatro infilarsi in terza fila, passare oltre la poltroncina vuota di Dominic e chinarsi a mormorare qualcosa all’orecchio del senatore Kennedy. Slavi aveva gia levato la bacchetta per dare inizio al secondo movimento, ma cio non impedi a John Kennedy di alzarsi per raggiungere l’uscita in tutta fretta. Intanto che contavo le battute che mancavano all’inizio della mia parte vidi che Jackie mi rivolgeva un sorrisetto e alzava le mani in segno di scusa. Da qualsiasi altra moglie di un senatore l’avrei interpretato come un gesto puramente formale, ma sapevo che nel caso di Jackie la contrizione era davvero sentita. Era la sola veramente colta fra le donne che affiancavano il marito nella sua carriera politica senatoriale. Spesso avevo pensato che sarebbe stata una splendida First Lady, se John avesse avuto qualche voto in piu nel 1960.
Ma il contrattempo non era finito li.
Con l’aiuto di persone come Jackie e Slavi Rostropovich — e naturalmente di Dom — m’ero introdotta nell’ambiente di Washington e conoscevo centinaia di personaggi, personalmente o di vista. Cosi sapevo che quel pubblico era quello che chiamano «di societa», il che alla capitale significava fitto di diplomatici, gente del Pentagono, senatori e amministratori della cosa pubblica. Perfino la Presidentessa Nancy Reagan era presente nel suo palco, seduta a fianco del First Gentleman come sempre urbano e compassato. Quel genere di pubblico aveva problemi speciali. E il peggiore di tutti era che, se all’improvviso nel mondo qualcosa andava storto, meta di loro ne sarebbero stati informati praticamente nello stesso istante.
E qualcuno, adesso, li stava informando.
A meta dell’
Nulla avrebbe potuto impedirci di rivolgere un bell’inchino alla platea. Poi ci ritirammo dietro le quinte e per mutuo accordo non ci ripresentammo alla ribalta, per dare al pubblico la possibilita di filarsela… come molti di loro erano ansiosi di fare.
E come la curiosita stava rendendo anche noi, dietro il sipario, ansiosi di fare.
Fu piu difficile per Slavi che per me. Io ero libera per il resto della serata, e lieta di esserlo, mentre lui avrebbe dovuto tornare sul palco dopo l’intermezzo per la seconda parte del programma. Si trattava di Mahler, e ambedue pensavamo che non ci sarebbe stata molta gente in sala per assistere all’interminabile Prima Sinfonia.
Quando scoprimmo cosa stava succedendo, quella divenne una certezza.
La prima a dircelo fu la mia guardarobiera, Amy. Amy non si occupava del mio guardaroba, in realta, anche se l’avrebbe fatto con il massimo entusiasmo qualora glielo avessi permesso. Il suo compito era prendersi cura di me. Teneva d’occhio il Guarnerius quando lo mettevo giu per un momento, si assicurava che il mio abito non avesse bisogno di un’improvviso ritocco con lo smacchiatore o il ferro da stiro, controllava quello che avrei dovuto mettere dopo il concerto, teneva pronte per me scorte di rossetti, assorbenti e ciglia finte. Faceva tutte queste piccole cose e inoltre una grossa: metteva strati di bende sugli occhi di mio marito quando ero fuori da qualche parte con Dom.
Si premurava anche di dirmi cio che secondo lei dovevo sapere, comprese cose che non avrei voluto sapere.
Di tutte le espressioni stupefatte, ansiose o preoccupate che c’erano dietro le quinte quella sera, la sua era la piu sconvolta. Si fece largo fra il personale e i musicisti che mormoravano innervositi, e ci raggiunse. — Nyla! — gemette — ad Albuquerque sono diventati pazzi!
Ad Albuquerque, come sapevo benissimo, c’era la Base di Sandia. E Dominic era laggiu. D’improvviso, come se questo accadesse a un’altra, m’accorsi che mi si piegavano le ginocchia. Slavi mi sostenne per un braccio. Amy prese il violino e mi afferro l’altro braccio, in quell’ordine.
— E Dom? — gorgogliai.
— Oh, Nyla… — Amy aveva le lacrime agli occhi. — Lui e il peggiore di tutti!
Fu soltanto un puro caso che il primo prigioniero da noi catturato fosse me stesso.
Avrei dovuto imbattermi in lui prima o poi, naturalmente. Sapevamo che il mio doppio era li. Forse lui (quel «lui» che era me) mi aveva fatto un favore, perche una delle ragioni per cui avevo avuto il comando del primo scaglione d’assalto stava nel fatto che sapevamo che il senatore Dominic DeSota era sul luogo. (Senatore! Com’era potuto accadere? Com’ero riuscito ad arrivare tanto in alto nella sua linea temporale, mentre nella mia non ero altro che un qualsiasi ufficiale sperduto nei ranghi anonimi delle forze armate? Comunque, la posizione raggiunta da questo DeSota stava contribuendo a elevare la mia…)
— Sono pronti, signore — disse la sergente Sambok.
— Benissimo — le risposi, e la seguii su per le scale fino all’ufficio del capo scienziato, o come lo chiamavano li. Non avevo tempo da perdere preoccupandomi dei diversi titoli o gradi, grammaticalmente insoliti, della gente con cui avremmo avuto a che fare: il «me stesso» che mi aveva fissato pensosamente, i «noi» che avevamo trovato li. E non avevo tempo per meravigliarmi di cose che qualche ora addietro mi avrebbero meravigliato molto, vale a dire quelle che erano pur sempre coincidenze curiose fra la vita di questo Dom DeSota e la mia. Le nostre esistenze erano state diverse in un’enorme quantita di particolari. Cio malgrado entrambi eravamo stati coinvolti in situazioni parallele… e ovviamente non solo «entrambi» noi, visto che c’erano tutti gli altri Dominic DeSota nelle innumerevoli altre linee temporali. I consiglieri tecnici non s’erano sprecati a illustrare particolari di quel genere. Ne ero a conoscenza perche li avevo domandati espressamente. Tutto cio che avevano in programma di rivelare, a parte una versione per i profani dei loro mumble-mumble matematici, era che noi Dominic DeSota avevamo geni e cromosomi in comune e un’infanzia in comune, su fino al punto in cui le nostre vite s’erano separate, dovunque quel punto fosse. Avevamo visto gli stessi film, letto gli stessi libri, e la nostra personalita s’era dunque sviluppata secondo parametri almeno paralleli.
— Da questa parte, signore — disse la sergente. Oltrepassai la porta che la ragazza mi aveva aperto ed entrai nell’ufficio del direttore della Casa dei Gatti, come quella gente aveva umoristicamente chiamato il loro progetto sugli universi paralleli.
Il sottotenente del Corpo Segnalatori disse: — Sara in onda fra trenta secondi, maggiore.
— Bene — risposi, e sedetti alla scrivania. Era lucida come il vetro… il capo scienziato doveva essere il classico sussiegoso scaldaseggiole di cui pullulano gli uffici direzionali, senza dubbio. Sul piano c’era soltanto il microfono del Corpo Segnalatori, coi fili che lo collegavano alla trasmittente manovrata dal sottotenente. Tentai i cassetti. Erano chiusi, ma aprirli sarebbe stata questione di un minuto.
— Si rompa una gamba, signore — mi auguro la sergente Sambok, ghignando sotto il suo trucco mimetico,