guardo di profilo mi vedo decisamente antiestetico e sgradevole. Stento molto a riconoscere quell’individuo dal sorriso melenso, con quel buffo naso e il mento sporgente. Come abbia fatto a capitare dentro uno specchio che dovrebbe riflettere me e sempre un grande mistero… Cio malgrado non perdo il contatto con la realta: so che quel personaggio sono io. Solo che avrei
Questa e l’esperienza che ebbi anche nella Casa dei Gatti, a Sandia.
Quando portarono dentro quell’uomo lui non mi guardo. Non guardava nessuno. Gli era stato impedito di asciugarsi la faccia, cosa che da se non avrebbe potuto fare comunque perche aveva le mani legate dietro la schiena. Forse il motivo per cui camminava a testa china era che temeva d’inciampare. Ma non lo credetti. Fui certo che il motivo era un altro: sapeva che se avesse alzato il capo si sarebbe trovato a guardare i suoi stessi occhi. O i miei. I nostri.
Detestai la situazione all’istante.
Era mille volte peggio che guardarsi in uno specchio a tre ante. E il disagio fu tale che mi colse impreparato.
Costui aveva la mia faccia, i capelli del mio identico colore, perfino la stessa sfoltitura sulla sommita del cranio. Ogni particolare. O meglio quasi ogni particolare, perche c’erano lievi differenze: doveva avere due o tre chili meno di me, e indossava un abito che non somigliava per nulla ai miei. Era una sorta di tuta a un pezzo, di una stoffa lucida color verde scuro, con parecchie tasche sul torace e altre, suddivise in sezioni, sui lati dei pantaloni. Aveva tasche perfino sulle maniche e lungo la gamba destra. Forse avevano contenuto documenti e oggetti dell’altro me stesso, ma in quel momento erano vuote. Senza dubbio gli uomini del colonnello lo avevano rivoltato come un guanto.
Feci lo sforzo di dire: — Dominic, guardami.
Silenzio. L’altro Dominic non rispose, non alzo gli occhi e non fece nulla, anche se una lievissima inclinazione della testa m’informo che aveva sentito benissimo. Nessun altro nel locale aveva aperto bocca. Il colonnello stava zitto e attento, e quando il colonnello Martineau stava zitto e attento i suoi uomini facevano lo stesso.
Ci provai di nuovo: — Dominic! Per amor di Dio, dimmi cosa sta succedendo!
L’altro io tenne lo sguardo sul pavimento ancora per un poco. Poi lo rialzo, ma non verso di me. Sorvolano la testa di Martineau, fisso sull’orologio appeso alla parete, come se facesse un calcolo. Finalmente si volse a me e parlo: — Dominic — disse. — Per amor di Dio, non posso dirtelo.
Non era una risposta soddisfacente. Il colonnello Martineau fece per dire qualcosa ma lo azzittii con un gesto. — Per favore — chiesi.
L’altro me stesso ebbe una smorfia rammaricata. — Be’, Dom, vecchio mio, a esser franco il motivo per cui sono qui e che volevo dirti una cosa. A te — preciso. — E per «te» non intendo la seconda persona singolare o altre persone estranee a me stesso. Intendo te-Dominic-DeSota, che come sai bene, sei me.
Il colonnello aveva stretto i denti con ferocia, ma non lo lasciai parlare. — Ah, Dom! — dissi, tristemente. — Giochi di questo genere m’ero augurato di non doverli giocare mai. Ma, a parte la cosa in se stessa, perche non vuoi parlarmene?
— Perche e troppo tardi, Dom — disse.
— Troppo tardi, santo cielo,
— La cosa di cui intendevo avvertirti. Non lo sai?
— Io non so niente!
— Ma dovresti. Sta accadendo. E la prossima volta che ci incontreremo, tu ed io… — ebbe la smorfia di un sorriso, quasi addolorato. — Non saremo tu ed io a incontrarci. — Tacque, parve sul punto di parlare ancora, esito, getto uno sguardo all’orologio…
E in quell’istante scomparve.
Quando dico «scomparve» uso il termine alla lettera, ma non vorrei dare un’immagine sbagliata. L’altro Dominic DeSota non «scomparve» dietro qualcosa o fuori dalla porta. Non divenne sempre piu trasparente come un attore in uno show di fantascienza alla TV. Scomparve veramente. Un momento prima era li. Un momento dopo non c’era piu.
E le manette, chiuse ormai soltanto intorno all’aria, caddero sul pavimento dove lui aveva poggiato i piedi.
Cose del genere non fanno parte della vita di un normale essere umano. Non disponevo di alcuna reazione psichica gia bell’e pronta, per fronteggiare una flagrante violazione delle leggi naturali, e lo stesso poteva dirsi per il colonnello Martineau. Lui mi fisso. Io lo fissai.
Nessuno commento quella sparizione, a meno che «Merda-santa!» non si possa chiamare un commento. Mi parve che quel sussurro fosse uscito dai denti del colonnello.
— Hai un’idea di quel che stava dicendo, colonnello? — chiesi, tanto per esser sicuro. — No? Gia, penso di no. Bene. Adesso cosa facciamo?
— All’inferno se lo so, senatore! — ringhio. Ma per quanto a un ufficiale in comando sia permesso dire una cosa simile, non gli e permesso «non sapere» cosa fare. Abbaio un ordine al sergente, istruendolo sul fatto che l’altro me stesso andava immediatamente ricercato. Il sergente esibi un’espressione confusa, visto che ne noi ne lui vedevamo minimamente l’utilita della cosa, e il colonnello sospiro rassegnato. — Si dia da fare, sergente — disse, e lo segui con gli occhi mentre usciva. Poi si giro verso di me. — Be’, un elemento lo abbiamo. Ha detto che, qualunque cosa sia, sta gia accadendo. Percio non ci vorra molto per scoprire di che razza di faccenda si tratta.
— Mi auguro che non sia nulla di spiacevole — borbottai.
Ma quando la cosa accadde, dieci minuti piu tardi, fu chiaro che non era piacevole in nessun modo possibile. Eravamo usciti dall’ufficio, incamminandoci nel corridoio con alle calcagna il piccolo distaccamento di truppe del colonnello a passo di marcia, tutti con le divise estive e tutti chiedendosi dove poteva esser finito il prigioniero. E fuori dall’edificio vedemmo venire verso di noi un altro gruppo di militari, all’incirca una dozzina. Anche loro marciavano al passo, ma non portavano uniformi estive: quelle che avevano addosso erano tute da combattimento, e appese alla spalla avevano stranissime carabine a canna corta, d’aspetto micidiale.
— Stop! — latro un graduato quando furono a una decina di metri da noi. Il drappello si schiero orizzontalmente. Gli uomini misero un ginocchio a terra e imbracciarono le carabine, puntandole dritte su di noi.
Un ufficiale lascio il distaccamento e si fece avanti. — Merdasanta! — ansimo ancora il colonnello Martineau, e non ebbi bisogno di chiedergli il perche.
L’uomo indossava la stessa tenuta da combattimento degli altri, ma si poteva ipotizzare che fosse un ufficiale perche impugnava una pistola invece della carabina. E c’era qualcos’altro che avrei potuto dire di lui se ne avessi avuto il fiato. Comunque lo confermo quando apri bocca. — Sono il Maggiore Dominic DeSota, dell’Esercito degli Stati Uniti — disse, con una voce che conoscevo fin troppo bene. — E voi siete miei prigionieri di guerra.
Quelle parole furono scandite con chiarezza, ma nella sua voce c’era una nota un po’ stranita. Sapevo perche. L’intimazione era indirizzata al colonnello, mentre gli occhi dell’uomo erano inchiodati su di me, e anche quell’espressione m’era familiare. Era l’espressione che avevo anch’io. Dissi: — Salve, me stesso. — Lo vidi accigliarsi. — Credevo che tu fossi scomparso. Di che si trattava, allora? Era tutto uno scherzo?
Lui fece un cenno col capo a uno dei soldati, che corse avanti e mi agguanto per le braccia unendomele a viva forza dietro la schiena. Sentii una morsa fredda attorno ai polsi e compresi d’esser stato ammanettato. — Non capisco cosa tu voglia dire con «scomparso» — esclamo l’altro me stesso. — Ma questo non e uno scherzo. Consideratevi tutti sotto custodia protettiva.
— A che scopo? — sbotto il colonnello, porgendo malvolentieri i polsi alle manette.
— Soltanto finche non avremo chiarito le cose col vostro governo — ci rassicuro l’altro me stesso. — Vogliamo spiegare loro cosa devono fare, e voi rimarrete nostri prigionieri fino al momento in cui si dichiareranno d’accordo. Vi conviene star calmi. Se la cosa non vi piace, ovviamente, avete sempre un’altra scelta: fare resistenza. Dopodiche non sarete piu prigionieri, sarete soltanto dei cadaveri.