Mentre scendevo dall’auto tre MP lasciarono il furgone e mi scortarono all’interno. Cominciai a intuire che non c’era niente di amichevole e d’informale in quella visita. Gli MP non marciavano al passo e non accennarono a circondarmi, o tantomeno a toccarmi. Ma non mi tolsero un istante gli occhi di dosso nel percorso fra la porta e l’ala dove c’era l’ufficio del colonnello Jacob Martineau. Entrai. — Colonnello — dissi, con un cenno del capo.
Lui annui di rimando: — Senatore — fu tutto il suo saluto, quindi: — Posso vedere i suoi documenti, prego?
No, non c’era niente d’informale in quella faccenda. Martineau esamino la mia patente di guida dell’Illinois, il mio passaporto senatoriale, e la scheda in plastica anti-contraffazione con le mie impronte digitali, quella fornita anche di codice magnetico, che il Dipartimento della Difesa rilascia ai politicanti rompiscatole che pur non vantando un grado militare hanno il diritto, talvolta, di visitare le installazioni militari segrete.
Esamino ogni parola e ogni macchiolina su ciascuno di quei documenti. Mise poi la tessera del Dipartimento dentro la fessura di un terminale da tavolo, uguale a quelli in cui nei ristoranti di lusso ficcano la vostra carta dell’American Express dopo che avete ordinato ostriche per duecento dollari, e anche quand’ebbe visto accendersi la luce verde continuo a non mostrarsi soddisfatto.
— Senatore — chiese, — vorrei che mi dicesse dove ci siamo visti l’ultima volta. E stato al Pentagono o qui?
Lo fissai negli occhi. — Come sai perfettamente, Jacob, in nessuno dei due posti. E stato a Boca Raton, alla conferenza sulle tecnologie sperimentali. Entrambi eravamo li come osservatori.
Lui sogghigno. Rilassandosi un tantino mi restitui il portafogli. — Suppongo che tu sia proprio tu, Dom — disse. — L’altro uomo non ricordava di Boca Raton.
Cominciai a domandargli chi intendeva per «altro uomo», ma il colonnello m’interruppe con un gesto. — Aspetta un momento, per favore. Sergente! Porti il prigioniero in sala riunioni, prego. Il senatore ed io vogliamo parlargli subito.
Attese che il sergente avesse lasciato l’ufficio, poi si gratto un sopracciglio. — Qui abbiamo un guaio, Dominic.
— A causa di questo tipo che afferma di essere me?
— Non ha detto esattamente questo. — Il colonnello ebbe una somorfia. — Il guaio e che non ha detto quasi niente, anzi. Dapprima credevo che lui fosse te. Adesso…
— Adesso non lo credi piu?
Il colonnello esito. — Adesso — mormoro, — detesto dire una cosa di questo genere, ma non riesco a trovare nessun altro termine adatto a spiegarlo. Senatore, credo che quest’altro uomo sia un «Gatto».
Il personale della Casa dei Gatti sembrava non aver notato che eravamo nel mezzo della notte. Per il prigioniero le cose stavano diversamente: dormiva della grossa. Il sergente telefono dal reparto detenzione per informarci che l’uomo chiedeva il permesso di andare al gabinetto e farsi una doccia prima d’essere interrogato. — Perche no? — dissi, quando il colonnello Martineau mi getto un’occhiata. — Non m’importa molto di veder vilipesa la mia autorevole persona. Specialmente da me stesso.
Lui apri la bocca e rise in silenzio. Era quel genere di risatina che dedichereste a un controsenso, non a una battuta. Diede il permesso e ordino del caffe, sia per noi che per il prigioniero, quindi ci mettemmo a sedere e nell’attesa ci fissammo l’un l’altro.
Sembrava che non ci fosse molto da dire.
Avremmo potuto parlare della persona che sembrava me, ma entrambi avevamo sviluppato l’abitudine di non parlare dei Gatti. In effetti non usavamo mai neppure quel termine, se non durante ristrettissime riunioni confidenziali. Per quanto ne potevo sapere la parola stessa non era mai apparsa ne in documenti ne in altre registrazioni. Era il segreto meglio custodito che vi fosse in tutte le diverse installazioni per le ricerche segrete americane. E si trattava di un segreto tale che ancora stentavo a credere che fosse vero.
Sandia non poteva definirsi un’installazione segreta. C’erano gli impianti di ricerca sull’energia solare, visibili a chiunque: occupavano oltre la meta dei mille acri su cui si estendeva la Base. La sezione Armi Nucleari esisteva e non era un segreto… lo era solo cio che accadeva nel suo interno. Il mondo intero sapeva che da li uscivano bombe «pulite» e testate per missili autopilotati.
A parte questo, nessuno sapeva altro. O almeno, si supponeva che nessuno sapesse che a Sandia si facevano anche ricerche di un genere molto piu pericoloso. C’era una piccola sezione che studiava le modifiche artificiali del clima, come un’arma con cui annientare l’agricoltura di un eventuale paese nemico. E un’altra esplorava le possibilita della guerra genetica. Geni e cromosomi. Gli agenti che cercavano di sviluppare non erano chimici o batteriologici, da seminarsi sul territorio. Erano distruttori selettivi del DNA. Il loro scopo avrebbe dovuto essere quello di far nascere in un paese nemico bambini deboli o idioti.
Io ero solito giustificare me stesso dicendomi che, per quanto mi apparisse disgustoso e immorale, sembrava che quelle ricerche non avrebbero mai approdato a risultati concreti.
Poi c’era la sezione Spionaggio-Psi. Perfino piu abnorme, perfino piu dubbia. All’interno dell’edificio della sezione Spionaggio-Psi tenevamo un gregge d’individui dei due sessi, una ventina in totale, fra gli otto e i diciotto anni, tutti quanti molto strani. Ciascuno di loro dichiarava di avere una speciale capacita. Ce n’erano alcuni con proprieta «extracorporee», che dicevano di poter lasciare il proprio corpo e trasferirsi in un altro, anche distante migliaia di miglia, per vedere e udire con occhi e orecchi altrui. Meraviglioso! Costoro avrebbero potuto scorrazzare in ogni base nemica e risucchiarne fuori tutti i segreti meglio custoditi! Alcuni di loro affermavano d’averlo gia fatto, sebbene dovessimo ancora vederlo un segreto che ci servisse a qualcosa, o che — quanto a questo — potesse servire a chiunque altro.
L’intero carrozzone di queste ricerche mi trovava molto ma molto scettico. Parte del motivo era puro e semplice cinismo. I sedicenti individui Psi erano maledettamente «sedicenti», e avevano la noiosissima abitudine di barare sui test. Se venivano pescati con le mani nel sacco una volta si beccavano una punizione. Alla seconda venivano sbattuti fuori. E prima o poi tutti facevano quella fine. Questo pero non scoraggiava il personale che mandava avanti la sezione Spionaggio-Psi. Appena decidevano che uno dei soggetti era un truffatore e lo toglievano di torno, i loro talent-scout ne trovavano un altro in qualche paesino sperduto dell’Idaho o dell’Alabama e ce lo rifilavano per esaminarlo… senza interruzione, fino alla nausea.
L’altra ragione per cui ero scettico non era di carattere cinico. Al contrario, era tale che gli altri membri del comitato mi tacciavano d’idealismo quando ne accennavo.
Non volevo credere che avessimo
Oh, i giapponesi e i tedeschi, certo. Erano in effettiva competizione con noi, e i nostri industriali e uomini d’affari li odiavano come Catone aveva odiato Cartagine. Ci facevano una concorrenza feroce sul mercato internazionale, ma volevamo forse dichiarar loro guerra? Per «nemico» io posso intendere solo un sanguinario guerrafondaio, come lo erano stati Hitler e Stalin decenni addietro. Ma erano scomparsi… a dire il vero nel corpo diplomatico russo c’era un nipote di Stalin, con cui facevo qualche mano di poker quando me la sentivo di correre il rischio. Un gran bravo tipo. Nemici di quel genere, mortali e irriducibili, semplicemente non esistevano. Questo non