in un senso soltanto. Per ottenere energia dovevano invertire il portale e collassare il campo. Quando l’ufficiale addetto alla porta mi fece un cenno col capo sollevai il radiotelefono, e la voce del Generale Magruder non mi diede il tempo d’aprir bocca. — Ben fatto, maggiore! — abbaio. — E il Presidente che glielo manda a dire. Ha seguito l’operazione da vicino, naturalmente.
— Grazie, signore.
— Ora passiamo alla Fase Due. E pronto per la trasmissione TV?
— Sissignore. — Non lo ero ancora, ma lo sarei stato appena Nyla Sambok fosse tornata coi vestiti.
— La stazione TV e i ripetitori sono in mano nostra. Potranno trasmettere fra circa mezz’ora. I tecnici hanno gia il nastro del Presidente e lo manderanno in onda dopo la sua introduzione.
— Sissignore.
— Bene. — Poi cambio tono. — Un’altra cosa, maggiore. Ha notato segni di reazione?
— Niente di nuovo, signore. Ma non abbiamo ancora interrogato i prigionieri.
— Uhm! Qualcun altro visitatore poco gradito?
— Per ora nessuna traccia, signore.
— Tenete gli occhi aperti — borbotto, e riappese. Avevo identificato bene il tono. Era quello di chi ha paura.
Mezz’ora dopo, camminando sul terreno deserto della Base verso la stazione TV, sotto le stesse stelle che illuminavano anche la mia America, m’accorsi di provare gli identici oscuri timori. Una jeep degli MP m’incrocio a poca distanza, scandagliando il buio col suo faretto. Rallentarono appena il tempo di prender visione della mia tuta da combattimento, poi proseguirono. Non mi dissero parola. E non mi chiesero i documenti.
Avrei potuto benissimo essere uno di quei «visitatori poco graditi». Avrei potuto essere quell’altro me stesso che sembrava esser stato dappertutto. E se lo fossi stato, non avrei dovuto far altro che mettermi una fascia verde intorno a una manica per ingannarli. E in tal caso…
E in tal caso cos’avrebbe fatto quell’altro me? Ecco una domanda preoccupante. Quella gente aveva molto indagato e molto curiosato. Ma non aveva fatto assolutamente nulla.
Non potevo realmente biasimare gli MP per la loro trascuratezza, poiche dal loro punto di vista non c’era motivo di sospettarmi. Avevamo preso quella Base senza colpo ferire, spazzando via ostacoli costituiti soltanto da sentinelle mezzo addormentate che davanti alle nostre truppe avevano sbarrato gli occhi per lo stupore. Che razza di modo per impadronirsi dell’America! Mi chiedevo come potesse essere la vita in una nazione dove le Basi di quell’importanza venivano sorvegliate da appena un manipolo di uomini dell’esercito regolare, dove non c’era la coscrizione obbligatoria, ne il richiamo in servizio dei riservisti. Se io stesso avessi terminato i miei studi postmilitari invece di esser riattivato nella Riserva, cos’avrei finito per diventare?
Un senatore, forse?
Ma non era il genere di speculazioni in cui potevo perdermi, quando mi attendeva la parte piu delicata del lavoro per cui ero li.
La sergente Sambok era gia alla stazione TV con gli abiti del senatore DeSota, puntuale ed efficiente. Cercai uno spogliatoio e appesi a una gruccia la mia uniforme. Gli piaceva vestir bene, a quest’altro Dom DeSota: camicia, cravatta, scarpe, pantaloni, giacca sportiva, tutto molto fine e di lusso. Il taglio degli abiti era singolare (qui la moda sembrava assai diversa dalla nostra) ma apprezzai il contatto sulla pelle della camicia di seta, e l’elegante piega dei pantaloni. Mi stavano un filo troppo larghi. Il mio alter ego aveva messo su qualche chilo di troppo, e questo mi fece sogghignare mentre stringevo di un buco in piu la sua bella cintura.
Quando uscii dallo spogliatoio la sergente mi osservo con aria d’approvazione. — Molto elegante, maggiore — si complimento.
— Cosa gli ha lasciato addosso? — chiesi, esaminandomi in uno specchio. E quando la vidi sogghignare seppi la risposta. In Agosto non si soffriva il freddo neppure in mutande, tuttavia… — Gli faccia avere una mia tuta da fatica. La trovera nella mia borsa B-4 — ordinai. Per sua fortuna quelle tute sono sempre un po’ larghe, cosi non dubitavo che gli sarebbe andata bene.
— Sissignore — annui la sergente Sambok. — Signore?
— Che c’e?
— Be’… se lei indossa i suoi vestiti e lui si mettera i suoi, non ci sara un po’ di confusione? Voglio dire, supponiamo che lui riesca a metterla fuori combattimento e scambi di nuovo gli abiti. Come faro a capire chi e l’uno e chi l’altro?
Aprii la bocca per dirle che era una sciocca. Poi la richiusi. Non aveva affatto torto. — Ottima supposizione — annuii. — Le rispondo subito: io sono quello che conosce il suo nome completo. D’accordo?
— Si, signore. Comunque, finche lui e chiuso nel recinto e lei e fuori…
— Giusto — borbottai. Solo in quel momento mi resi conto che, nelle ultime due ore, non aver potuto avvicinare l’altro me stesso mi aveva dato un certo disagio.
Avrei voluto confrontarmi con lui. Mi sarebbe piaciuto sedermi e parlare con lui, sentire la sua voce, scoprire dove le nostre vite combaciavano e dove erano diverse. Quella sensazione era una specie di prurito, un fremito, come la prima volta che si pensa di provare la droga, o il sesso. Ma volevo farlo.
Quando entrai nello studio dovetti dimenticare quei pensieri. I cameraman fissarono stupefatti il mio abbigliamento, il capitano del Corpo Segnalatori ghigno apertamente, ma il caporale che aveva assunto le mansioni di regista mi stava gia mettendo in posizione. — Si tenga piu eretto, signore! — Ascolto quel che gli veniva detto in cuffia e alzo una mano. — Dieci… nove… otto… sette… sei… cinque… quattro… tre… — Per contare usava le dita. Due dita, un dito, poi sollevo il pollice: la luce verde della telecamera si accese, e il rullo col mio discorso comincio a girare.
— Signore e signori — lessi, fissando gli occhi anche nella telecamera, — io sono Dominic DeSota. — Questa non era una bugia. Non avevo affermato d’essere il
I fotoni della mia inquadratura a mezzobusto entrarono nelle lenti della telecamera, furono trasformati in elettroni e convogliati via cavo dallo studio di regia alle antenne sul tetto dell’edificio, dove vennero convertiti ancora in onde elettromagnetiche di diversa frequenza e proiettati attraverso la valle fino ai grossi ripetitori della KABQ. Da li attraversarono obliquamente l’atmosfera, raggiungendo il satellite in orbita a qualche migliaio di chilometri da terra, e vennero di nuovo trasmessi a impianti di superficie che li disseminarono in tutti gli apparecchi televisivi degli Stati Uniti.
L’intero distaccamento del Corpo Segnalatori era in uniforme, ma c’erano anche un bel po’ di civili con la fascia rossa al braccio. Riservisti anche loro, richiamati per quell’emergenza, e ovviamente tutti tecnici e professionisti della televisione. Da bravi civili stavano usando al meglio i comfort di quello studio. Nel corridoio qualcuno aveva allestito un buffet, con cibi e bevande d’ogni genere… anche roba calda: dovevano aver liberato e messo all’opera il PX locale.
Mi versai una tazza di caffe, ascoltando la voce del Presidente Brown che proveniva da un monitor. — …e come Presidente degli Stati Uniti, mentre mi rivolgo a voi che pure siete Presidente degli Stati Uniti, e a tutto il popolo americano… — Sembrava un po’ teso, ma la sua voce suonava sicura intanto che leggeva il discorso preparatogli per l’occasione. — …a questo punto della nostra storia ci troviamo a confronto con un sistema dispotico lanciato alla conquista del pianeta… — E poi: — … i legami di sangue, e la comune devozione ai principi della liberta e della democrazia… — E cosi via. Era un discorso piuttosto ben studiato; ne avevo letto il testo il giorno prima. Ma la cosa davvero importante non stava in quelle frasi eloquenti. Stava nel fatto che eravamo noi a controllare la situazione.
La stessa voce proveniva dalla porta aperta della cabina di regia, in fondo al corridoio. Presi la tazza e andai a dare una sbirciata. Non c’era un solo monitor li: ce n’erano dozzine, e quasi tutti inquadravano il volto serio e grave del Presidente. Ma vidi anche schermi che mostravano altre facce, non meno serie e preoccupate: John Chancellor, Walter Cronkite e un paio di giornalisti che non riconobbi. Stavano gia facendo il loro commento.