dell’emirato prese a trillare. L’uomo abbandono controvoglia la postazione da cui si stava godendo la gara e rispose.

In quel momento le vetture di testa stavano affrontando una curva a gomito dominata dalle otto tribune, tre fisse e cinque provvisorie, che erano state montate per accogliere il numeroso pubblico.

Il rumore delle microesplosioni venne coperto dal passaggio dei bolidi, ma in un attimo due delle tribune furono scosse da un sussulto, quindi crollarono accartocciandosi su se stesse. Dei millecinquecento spettatori che vi avevano preso posto, ben pochi sarebbero sopravvissuti. I dubbi sul motivo del crollo vennero sciolti non appena gli inquirenti ebbero esaminato i pali portanti, spezzati dalla precisione delle deflagrazioni.

Breil aveva osservato sgomento la scena, come moltissimi telespettatori intenti a godersi il primo Gran Premio del Bahrein di Formula Uno in diretta.

«… le scalpitanti ansimanti che fan sprizzare scintille, che caricano al mattino, che fanno volare la polvere, che irrompono in mezzo… Come ho fatto a non pensarci prima?» ripete a mezza voce Oswald Breil, mentre Bernstein lo guardava senza capire.

Ancora una volta la mano assassina del Giusto in nome di Dio era calata su uomini, donne e bambini innocenti. Ancora una volta l’assassino si era preso gioco di loro. Ancora una volta erano arrivati troppo tardi per salvare centinaia di vite umane.

Adrik Gavrilovic era nato negli Stati Uniti d’America da genitori ucraini cinquantadue anni prima. La sua fedina penale era simile a un foglio di carta da alimenti nel quale fosse stato conservato un trancio di pizza al pomodoro: le macchie erano ovunque, ma la cosa sembrava non preoccupare affatto Gavrilovic.

«Il russo», come veniva chiamato in certi ambienti, perseverava nei suoi loschi affari, in barba a tutte le leggi e a ogni considerazione morale. Quello che definiva «banco dei pegni» altro non era che uno sportello di ricettazione e strozzinaggio aperto dodici ore al giorno. Acquistare refurtiva da tossici in crisi di astinenza da crack poteva dirsi la piu onesta tra le occupazioni di Gavrilovic: il solo fatto che un’azione fosse atta a produrre ricchezza la rendeva automaticamente lecita. Non la pensavano cosi i federali, che da tempo gli stavano alle costole e che spesso facevano irruzione, armi in pugno, nel suo negozietto in Second Avenue, a pochi passi dal Museo Ucraino.

La proposta che gli aveva fatto il pezzo grosso della CIA lo aveva subito allettato: mettere in giro la voce di avere un grande quantitativo di esplosivo da vendere, in cambio di un allentamento sui controlli delle sue attivita e dell’archiviazione «automatica» di ogni vecchia pendenza.

Gia, chissa se il pezzo grosso dell’Agenzia, Glakas, gli pareva si chiamasse, avrebbe poi mantenuto le promesse, se lui fosse diventato determinante per la soluzione dell’indagine. «Poco male», si era detto l’ucraino, «io non rischio nulla, e da questa storia ho solo da trarre profitto.»

Glakas si era quasi scordato dell’incarico che aveva affidato a Gavrilovic.

Quando il funzionario aveva sentito squillare il telefono riservato aveva sperato che fosse qualcuno dei suoi che gli comunicava una buona notizia sul fronte delle indagini rivolte a scovare un covo di integralisti fedeli alla Jihad. A dire il vero il funzionario della CIA ci mise alcuni secondi prima di riuscire a fare mente locale.

«Mi ha chiamato un acquirente, signore», disse Gavrilovic raggiante.

«Non mi sembra il caso di eccitarsi in questa maniera: negli Stati Uniti ci sono infiniti acquirenti di una partita clandestina di esplosivo ad alto potenziale», rispose Glakas cercando di ridimensionare gli entusiasmi del ricettatore.

«Non era come gli altri due che hanno chiesto notizie, signore. Per quelli non ho nemmeno pensato di disturbarla. Questo era diverso, parlava con la voce contraffatta. Era risoluto e freddo. Sono sicuro che si trattava del nostro uomo.»

«Bene, Gavrilovic, se e cosi, speriamo che ti contatti nuovamente. Sai quello che devi fare.»

A pochi isolati di distanza dal monte dei pegni di Gavrilovic, una persona vestita da addetto alla manutenzione delle linee telefoniche stava scollegando due morsetti da un pannello. Le dita sottili avevano armeggiato per pochi secondi, prima di identificare la chiamata del ricettatore ucraino: una volta effettuato il ponte e ottenuto accesso alla linea di Gavrilovic, nella mente del Giusto erano diventati chiari i contorni della trappola. Le mani dalle dita sottili erano coperte dai guanti in dotazione agli addetti alla manutenzione.

Il Giusto richiuse lo sportello dell’armadietto delle derivazioni telefoniche, non senza aver prima annotato il numero che Gavrilovic aveva composto; le cifre erano comparse sul display del telefono di servizio che il finto operaio aveva collegato alla linea per intercettare la chiamata.

26

Maggio 1917

Quando Sciarra apri gli occhi, una fitta lancinante si irradio dal punto in cui era stato colpito dandogli la sensazione che la testa stesse per esplodergli. La scena che vide, mentre si tastava un grumo di sangue rappreso tra i capelli, fu tale da fargli riacquistare lucidita in una frazione di secondo.

A poca distanza dal mobile settecentesco si trovava un vecchio inginocchiato che si dava da fare per prestare le prime cure a una persona stesa a terra.

Sciarra riconobbe l’anziano guardiano che lui e il tenente Petra avevano scorto poco prima dal loro nascondiglio.

Poi, riconoscendo Petra nella persona ferita, gli torno alla mente il motivo per cui lui e il suo sottoposto si erano venuti a trovare nel castello in cui era nato Vlad Tepes. Guardo nel cassetto segreto, non si stupi nel vedere che era stato svuotato, quindi si affianco al vecchio e insieme tentarono di rianimare il ferito.

Minhea Petra aveva una ferita che pareva causata da un colpo di arma da fuoco, poco sopra il sopracciglio sinistro. Il sangue ne sgorgava copioso. Per un istante Sciarra temette di averlo perso per sempre. Una paura che sembrava attanagliare anche l’anziano servitore: «Mio signore… mio signore… ve ne prego, svegliatevi. Ve ne prego, signorino Minhea… ve ne prego…» continuava a ripetere Toma.

Minhea con un movimento improvviso si riscosse e torno in se, si porto le mani alla ferita e tento di detergersi gli occhi coperti di sangue, quindi disse con voce ferma: «Mi ha sparato a bruciapelo. Non so come faccio a essere ancora vivo».

«Avete avuto una grande fortuna, tenente: il colpo, comunque di piccolo calibro, non e riuscito a penetrare nel cranio, ed e schizzato via per la tangente. La pallottola potrebbe avere scheggiato l’osso frontale. Avete visto chi e stato?»

«Blasko», rispose Petru senza esitazione. «Era Bela Blasko. Ha preso lo scrigno che conteneva alcuni gioielli di famiglia e l’Anello dei Re.»

«Se si trattava di Blasko il palazzo sara presto invaso da soldati ungheresi ai quali avra denunciato la nostra presenza. Dobbiamo uscire di qui e fuggire.»

Quasi le avessero evocate, alcune voci concitate risuonarono nella piazza antistante il castello di Dracula. Con movimento simultaneo le mani di Sciarra e di Petru corsero alle pistole.

Fu Toma, allora, a parlare: «Presto, signorino Minhea, seguitemi. Vi condurro fuori di qui».

Il terzetto si inoltro nei locali occupati un tempo dalla servitu, mentre lo scalpiccio dei soldati ungheresi risuonava ormai all’interno del palazzo.

Giunti nelle cucine, Toma porse una lanterna a Sciarra, prima di aprire una porta e scendere lungo la scala che conduceva ai sotterranei.

La ferita di Petru aveva smesso di sanguinare, almeno a giudicare dalla benda che l’ufficiale rumeno si era avvolto intorno al capo.

«Presto, di qua», disse Toma aprendo una botola sul pavimento posta tra due file di botti di rovere. «Seguendo il canale delle fognature, che passa qui sotto, arriverete fuori dalla citta in pochi minuti. Il canale si getta nel Tirnava. Seguendo il corso del fiume, dopo un paio di chilometri incontrerete una piccola fattoria. Il proprietario si chiama Mihail, e mio cugino. Se gli ungheresi non gli hanno confiscato tutti i cavalli, sara felice di vendervene un paio. Che Dio sia con voi, signorino Minhea.»

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