strada. Due ragazzini compivano evoluzioni in bicicletta, lungo la staccionata del magazzino di legname, fermandosi di tanto in tanto, per studiare gli esemplari di arte da caserma, sull'assito. Nient'altro si moveva, nel vicinato. Nemmeno un cane. All'angolo della via c'era una nuvola di polvere, nell'aria, come se fosse appena passata un'automobile.

Mi avvicinai alla scrivania. In un cassetto c'era il registro degli ospiti.

Sfogliai le pagine all'indietro, finche arrivai al nome: 'Orrin P. Quest' vergato in una scrittura appuntita e meticolosa, e le parole 'N. 14, piano 2' aggiunte a matita da un'altra grafia, che non era ne appuntita ne meticolosa. Di li tornai alle ultime pagine ma non trovai nuove registrazioni, per la camera 14. Nella camera 15 abitava un certo G. W. Hicks. Riposi il registro e mi avvicinai al divano. L'uomo smise di russare e di gorgogliare e si getto un braccio attraverso il petto come se stesse per fare un discorso. Mi chinai, gli afferrai il naso ben stretto, fra l'indice e il medio e gli ficcai in bocca un lembo del suo golf. Lui smise definitivamente di russare e spalanco gli occhi di scatto. Erano vitrei e iniettati di sangue. Cerco di sottrarsi alla mia mano. Quando fui certo che era sveglio del tutto lo lasciai andare, presi la bottiglia di gin dal pavimento e versai un po' di liquore in un bicchiere che giaceva su un fianco, accanto alla bottiglia. Poi mostrai il bicchiere all'uomo.

La sua mano scatto in avanti con la bella ansia di una madre che da il benvenuto a un figlioletto perduto.

Tirai indietro il bicchiere e domandai:

– Siete il direttore?

Lui si lecco le labbra, a fatica come se appiccicassero e disse:

– G-r-r-rr.

Tento di nuovo di afferrare il bicchiere. Io lo deposi sul tavolo, di fronte a lui. Lui lo prese cautamente, con entrambe le mani e si verso il gin in gola. Poi scoppio in una grassa risata e mi getto il bicchiere. Riuscii ad afferrarlo e lo deposi nuovamente sul tavolo. L'uomo mi esamino, sforzandosi di fare il severo, ma senza successo.

– Che cosa c'e? – gracchio in tono annoiato.

– Siete il direttore?

Annui e per poco non cadde dal divano.

– Devo essere un po' sbronzino – disse. – Sbronzino un pochino pochino.

– Non siete poi tanto conciato – osservai. – Respirate ancora.

L'uomo poso i piedi a terra e si rizzo, a fatica. Improvvisamente scoppio in una risatina rauca, divertita, fece tre passi incerti, cadde carponi e tento di mordere la gamba d'una sedia.

Lo tirai di nuovo su, lo feci sedere sulla poltrona imbottita dal bracciolo bruciacchiato e gli versai un'altra dose della sua medicina. Lui la bevve, fu scosso da un brivido violento e ad un tratto i suoi occhi parvero diventare ragionevoli e astuti. Gli ubriachi di quel tipo hanno dei momenti di lucidita in cui sono perfettamente equilibrati. Non si puo mai sapere quando arriveranno ne quanto potranno durare.

– Chi diavolo siete? – mugolo.

– Sto cercando un certo Orrin P. Quest.

– Che?

Ripetei la frase. Lui si passo le mani sulla faccia, sporcandosela, e annunzio, laconicamente:

– Andato via.

– Dove e quando?

L'uomo agito una mano e quasi cadde dalla sedia: poi agito la mano nell'altro senso, per riprendere l'equilibrio.

– Datemi un cicchetto – brontolo.

Versai un'altra dose di gin ma tenni il bicchiere in modo che non potesse prenderlo.

– Datemi – balbetto con ansia. – Sono molto giu.

– Tutto quel che voglio e l'attuale indirizzo di Orrin P. Quest.

– Ma pensa un po' – esclamo lui, con l'aria di dire una barzelletta, e fece un debole tentativo per afferrare il bicchiere che tenevo in mano.

Deposi il bicchiere sul pavimento e trassi di tasca un biglietto da visita, di quelli d'ufficio.

– Questo forse vi aiutera a concentrarvi – dissi.

Il direttore scruto il cartoncino, attentamente, lo piego a meta poi lo piego ancora. Lo tenne sul palmo della mano aperta, per un istante, ci sputo sopra e lo butto via, facendoselo volare dietro la spalla.

Gli porsi il bicchiere di gin. Lui bevve alla mia salute, annui, con aria solenne e si butto anche il bicchiere dietro la spalla. Il bicchiere rotolo sul pavimento e ando a urtare il bordo di legno della parete. L'uomo si alzo, con sorprendente facilita punto un pollice contro il soffitto e strinse a pugno le altre dita, emettendo un suono aspro con la lingua e i denti.

– Filate – ordino. – Ho degli amici, io. – Diede un'occhiata al telefono a muro, poi si volto a guardarmi, con aria astuta. – Un paio di ragazzi che vi sistemeranno – spiego in tono sprezzante. Io non apersi bocca.

– Non mi credete, eh? – ruggi, montando improvvisamente in collera.

Scossi il capo. L'uomo si diresse al telefono, strappo il ricevitore dal gancio e compose le prime cinque cifre di un numero. L'osservai attentamente. Uno-tre-cinque-sette-due.

Questo consumo tutte le sue energie, per il momento. Lascio ricadere il ricevitore contro il muro, con fracasso, e si sedette sul pavimento, di fianco ad esso. Poi vi poso contro l'orecchio e mugolo, rivolto alla parete:

– Fatemi parlare col dottore. – Ascoltai in silenzio. – Vince! Il dottore! – urlo l'uomo, rabbiosamente.

Scosse il ricevitore e lo getto lontano da se. Poi poso le mani sul pavimento e comincio a girare in tondo, carponi. Quando mi scorse parve sorpreso e irritato. Si alzo di nuovo in piedi tremando e tese una mano:

– Datemi un cicchetto.

Ricuperai il bicchiere e munsi di nuovo la bottiglia del gin. L'uomo accetto il liquore con la dignita di una vedova ubriaca e lo butto giu con un gran gesto. Poi si diresse tranquillamente verso il divano e si sdraio, usando il bicchiere per cuscino. Si addormento di colpo.

Riappesi il ricevitore al suo gancio, diedi un'altra occhiata in cucina poi perquisii l'uomo sdraiato e in una tasca pescai un mazzo di chiavi. Una era un passe-partout. La porta del corridoio aveva una serratura a scatto. La sistemai in modo da poterla riaprire e mi incamminai su per le scale. Lungo il tragitto mi fermai per scrivere su una busta: Dott. Vince, 13572. Forse era un indizio.

Tutta la casa era in silenzio, mentre salivo.

CAPITOLO IV

La chiave universale del direttore giro silenziosamente nella serratura della camera 14. Spinsi la porta. La camera non era vuota. Un uomo tozzo, robusto, era chino su una valigia, posata sul letto, e dava le spalle all'uscio.

Camicie, calzini e altri capi di biancheria erano stesi sulla coperta e l'uomo stava riponendoli in valigia ordinatamente, senza fretta, fischiettando tra i denti una nenia sommessa, senza melodia.

Quando senti un cardine cigolare si irrigidi. La sua mano sfreccio verso il cuscino.

– Vogliate scusare – esclamai. – Il direttore mi aveva detto che questa stanza era libera.

L'uomo era calvo come un'arancia. Portava un paio di calzoni grigi, con le bretelle di plastica trasparente sopra una camicia blu. La sua mano usci di sotto al cuscino, si accosto al capo e torno giu. L'uomo si volto e aveva i capelli.

Erano incredibilmente naturali: lisci, bruni, senza scriminatura. Lo sconosciuto mi guardo male, da sotto la sua chioma.

– Potevate almeno bussare – protesto.

Aveva la voce profonda, un po' rauca e un viso largo, circospetto, che aveva visto molte cose.

– Perche avrei dovuto? Se il direttore mi ha detto che la stanza era vuota.

Lui accenno di si, soddisfatto, e smise di guardarmi male.

Mi feci avanti, senza essere invitato. Un giornaletto d'amore giaceva a faccia in giu, sul letto, vicino alla valigia. Un sigaro fumava, dentro un portacenere. La stanza era ben tenuta e ordinata, e, per quella casa, pulita.

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