natia, si illumino in volto.

Mentre la conducevo al piano superiore, nella camera di mamma, chiacchierammo piacevolmente sulla facilita con cui aveva individuato la mia casa e su come vi era stata indirizzata da una collega.

Una volta entrati nella camera di mamma, fece silenzio e guardo con compassione la sua futura paziente, poi si fece il segno della croce alla vista del crocifisso che pendeva sopra il letto.

«Ah», disse con sincera comprensione. «Sta morendo, vero?»

«Si».

«Come dev’essere triste per voi!». Il suo tono era quello di qualcuno che aveva vissuto la stessa terribile esperienza da poco. «E siete solo? Non vedo moglie, bambini…».

Percepii, negli occhi e nell’aspetto della vedova Koehler, un barlume di speranza di maritarsi.

«Ho una moglie», dissi subito, improvvisamente sopraffatto dall’amarezza al ricordo di come mi fosse stata tolta spiritualmente, e al ricordo del mio piccolo Jan, preso dai Vampiri… da Zsuzsanna, quel malvagio demonio per il quale non riesco a trovare alcun perdono nel mio cuore. «Ma anche Gerda e malata…».

«Doppiamente triste! Dio vi ha dato un pesante fardello!». Inclino verso di me la grossa faccia dalla mascella forte e mi studio con almeno altrettanta pieta di quanta ne aveva avuta per mamma. «Allora ci saranno due pazienti?»

«No. Portero mia moglie con me a Londra, per consultare uno specialista. Mia madre ha un’eccellente infermiera che mi da il cambio durante la notte ma, ora che devo partire, ho bisogno di qualcuno che si occupi di lei durante il giorno».

«Ah! E qual e il problema di vostra moglie?»

«Shock», spiegai, «per l’orrore di essere morsa, e nello scoprire che l’aggressore aveva rapito il suo primo figlio».

«E la nostra paziente?», chiese con delicatezza, volgendo il suo sguardo gentile nuovamente verso mamma.

«Tumore al seno, e ora — penso — al cervello e in altre parti. Non e completamente lucida: di solito dorme, a causa della morfina. Ha molti dolori».

Fece schioccare lievemente la lingua.

«E qual e il suo nome, signore, se posso chiedere?».

Van Helsing, il mio stesso nome, stavo per rispondere, ma il suo comportamento era tanto simile a quello di un fidato amico di famiglia che risposi:

«Mary».

«Mary». Assaporo la parola con affettuosa approvazione. «La Madre di Dio. Un nome cosi bello…». Quindi ando a sedersi nella sedia a dondolo accanto al letto. «Io mi chiamo Helga», disse, sollevando la mano di mamma da sotto le lenzuola e prendendola gentilmente tra le sue, come se stesse presentandosi e scambiando informazioni. Dubito che la donna fosse consapevole di quello che faceva, ma mi era chiaro che aveva dei naturali poteri medianici.

Dopo un po’ me lo confermo guardandomi al di sopra della sua spalla dicendo:

«Voi siete un brav’uomo, signore, e molto coraggioso. Io so anche, nel mio cuore, che vostra madre e una donna buona. Saro felice di curarla in modo eccellente, e se Dio vuole che debba morire quando voi siete via, non pensate che sia morta da sola o con un’estranea, poiche io ne avro cura e preghero per lei come se fosse la mia stessa sorella».

Mi voltai, fingendo goffamente di guardare fuori dalla finestra, poiche la sua compassione mi aveva commosso. E, quando mi commuovo, il dolore represso sgorga al mio interno e scuote le mie difese come le acque di un’inondazione che rompono una diga; non potei impedire alle lacrime di uscire, ma mi mossi rapidamente per asciugarle e per riprendermi.

«Piangete, signore», disse, dietro di me, e udii il suono leggero dei colpetti affettuosi che dava alla mano di mia madre, come se mamma fosse pienamente cosciente e consapevole delle mie lacrime, e Frau Koehler la volesse consolare. «Ne avete tutto il diritto».

Finsi di tossire in modo da poter tirare fuori il fazzoletto per asciugarmi il naso e gli occhi, poi mi voltai, in segno di scusa, verso le due donne, e accennai col capo a mamma, le cui palpebre avevano cominciato a tremare.

«Non tanto quanto lei. Lei e quella che sta soffrendo, non io».

«Non e vero, signore. Poiche voi l’amate, tutta la sua sofferenza e diventata vostra e, dato che siete maggiormente in grado di osservarla attentamente, siete ancora piu consapevole di lei di quanto grande sia la sua sofferenza. Non e piu doloroso vedere soffrire qualcuno che si ama che sopportare quella sofferenza?».

Volevo protestare perche una parte di me era irritata al pensiero che io soffrissi piu di mamma. Ma non potevo negare che, poiche ero conscio, lucido, e ancora dotato di una vista soddisfacente, potevo guardare il volto di mia madre e vedervi la devastazione, vedere le rughe tracciate da anni di dolore, le sue guance infossate, e la pelle leggermente gialla. Vedevo anche le piaghe da decubito sanguinanti divorare la sua carne, mentre lei gridava per l’angoscia in un inutile sforzo di evacuare. Tutta la sua vita e stata piena di dolore: la perdita di due mariti, di un figlio, di un nipote, e il terrore di un destino peggiore della morte. Ha sopportato tutto questo allegramente, con coraggio, ma a quale scopo? Per perdere tutta la sua dignita e bellezza…

Non devo continuare, o scoppiero a piangere di nuovo. Basta! Basta!

Mi ci volle un po’ di tempo per ricompormi a sufficienza e rispondere a Frau Koehler:

«E difficile veramente, ma io penso di essere un buon giudice dei caratteri, e sento che presterete a mia madre una cura talmente affettuosa e compassionevole che non avro da preoccuparmi». Scacciai quindi tutto indolore e cercai di trasformare il mio tono in quello di un energico uomo d’affari. «E vero che potete cominciare da questa mattina? Il mio viaggio non puo aspettare; quanto prima io e mia moglie partiamo, meglio sara. Vorrei che restaste adesso, se potete, mentre io faccio i bagagli e mi organizzo».

«Saro lieta di restare», disse lei, alzandosi e rimettendo con delicatezza la mano di mamma sulle coperte.

«Magnifico!».

Le mostrai dove si trovavano, nella camera da letto, tutti gli strumenti medici indispensabili: la siringa, la morfina, la padella e il paregorico, la pomata, e le bende per le piaghe: Lei era ben istruita e piuttosto intelligente, per cui finimmo presto con i dettagli della cura alla paziente. Quindi venne l’ora di accompagnarla nel mio ufficio in modo da poterle pagare un anticipo sul suo salario.

Ma, mentre la conducevo verso le scale, un grido improvviso — attutito, cosi che non potei giudicare se era di gioia o di dolore — mi fece drizzare i corti capelli sulla nuca. Per un istante temetti che fosse mamma che gridava per il dolore, ma poi pian piano compresi, con cosi tanta forza, cosi tanta paura, che la pelle d’oca dal collo mi scese in basso verso la spina dorsale e le braccia.

Erano passati ventidue anni da quando avevo udito l’ultima volta la voce di mia moglie; per questo non l’avevo riconosciuta immediatamente.

Senza una spiegazione o una scusa per Frau Koehler, mi voltai e corsi subito lungo il corridoio, poi entrai nella stanza di Gerda.

Sedeva sul letto con gli occhi aperti, splendenti, e ogni segno di debolezza era svanito. Mi sembrava come se il cuore mi fosse balzato nel petto e, per un fuggevole istante, osai sperare che fosse ritornata da me, che Zsuzsanna e Vlad fossero stati entrambi distrutti, e che il mio amore ora fosse libero.

Ahime! I suoi occhi, sebbene aperti, rimasero fissi su una visione distante e invisibile, ma lei era forte, radiosa, e la sua pelle non era piu pallida, ma leggermente colorita, come se avesse preso da poco il sole, e i suoi capelli… i suoi capelli! Erano ancora scomposti sopra la lunga e ordinata treccia che Katya le faceva ogni notte… ma ogni striscia d’argento era scomparsa dai suoi riccioli castano scuro.

La fissai nuovamente in viso, incapace di credere a quello che i miei occhi vedevano, ma era proprio cosi: dal mattino presto era ringiovanita! Ogni capello bianco, ogni ruga e ogni piega della sua pelle flaccida, erano scomparsi.

«Gerda!», sospirai, poi le dissi piu forte: «Gerda cara, mi senti?».

Non diede segno di udirmi o di vedermi, ma qualcosa che stava guardando in un’invisibile lontananza, le fece illuminare il viso di pura gioia.

«E venuta!», disse, e rise forte. «E venuta…».

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