Dall’interno si senti un rumore di passi rapidi, decisi, piu forte a mano a mano che si avvicinavano alla porta.
Di colpo lo spioncino si apri.
«Chi e?» chiese una voce con un lieve accento mitteleuropeo.
«Birch. Ho con me le McKay.»
«Desidera una visita?»
«Si», rispose il giornalista, «siamo qui per questo.»
«La visita e per lei, Birch? E malato?»
«No, e per le McKay», spiego lui sempre parlando alla porta chiusa.
«Che lo dica la signora, allora.»
«Si», intervenne Vera, «desidero la visita.»
Tre serrature scattarono una dopo l’altra, poi la porta si apri, cigolando sinistramente.
Un piccolo volto dalla carnagione terrea e dalle rughe accentuate fece capolino. Marie Neuberger era esile e, come minimo, sulla sessantina. Capelli bianchi, raccolti a crocchia sulla nuca. Indossava una gonna jeans su una calzamaglia nera, con una camicia scozzese troppo grande. I freddi occhi marrone erano protetti da occhiali dalle lenti azzurrate, senza montatura. Si accorse che Vera era sconcertata dal suo aspetto.
«Lo so», disse, sempre senza sorridere. «Non assomiglio ai medici della televisione. Sono poco presentabile, vero?»
«Oh, no», si affretto a rispondere Vera.
«Lei mente, ma e okay. Lei mente per farmi sentire meglio.»
Vera arrossi, non sapendo che cosa rispondere.
Marie Neuberger li squadro, uno dopo l’altro. «Non visito qui sulla porta», disse. «Di solito la gente viene dentro.»
Accenno all’interno dell’appartamento e i tre entrarono. L’alloggio era reso scuro da piante artificiali che toglievano gran parte della luce. Il mobilio era vecchio, in stile provenzale, sui toni del bordeaux. Le pareti quasi tutte nude, dipinte di una tinta mostarda. Ma qua e la si notava una litografia e, sistemato in un angolino, c’era un gruppo di vecchie fotografie ingiallite. Vera le fisso, cercando di mostrarsi incuriosita.
«Le interessano?» le chiese la Neuberger.
«Si.»
«I miei insegnanti, a Vienna.»
«Dovevano essere grandi uomini.»
«Contraddizione in termini. Si sbagliavano tutti ed erano barbosi.»
«Allora perche tiene appese qui le loro foto?»
«Hanno figli in America», rispose la Neuberger. «A volte vengono a far due chiacchiere. Non voglio rompere i ponti con la vecchia patria.» Si avvicino alle fotografie. «Hanno studiato tutti con Freud. Che bidone, quello.»
«Sigmund Freud?» si stupi Vera.
«E chi altri? Il macellaio? Un dritto, quello. Delle creature umane ne sapeva quanto io so dei pinguini. Aveva soltanto cio che oggi si chiamano buone relazioni pubbliche.» I suoi occhi guizzavano da Vera ad Annie. «Chi e la paziente?» chiese asciutta.
«Tutt’e due», rispose Birch.
La Neuberger alzo lo sguardo al soffitto. «Che cosa credete che sia questa, una fabbrica?»
«Si tratta della mia bambina», si affretto a spiegare Vera. «Ma anch’io posso aver bisogno di aiuto.»
«Perche crede alle sue storie fantastiche?»
Vera sussulto. «Non sono…»
«Si, si, si, lo so. Non lo sono mai.»
Vera si senti di colpo scombussolata. Lancio un’occhiata apprensiva a Birch.
«Perche guarda lui?» domando la Neuberger. «Lui non dovrebbe nemmeno essere qui.» Si rivolse al giornalista. «Lei se ne vada e aspetti giu dabbasso.»
Birch era abituato ai modi della Neuberger, ma si finse sorpreso. «Dottoressa, sono amiche mie. Non posso davvero piantarle qui.»
«Perche no? Annegheranno qui da me? O se ne va lei, o se ne vanno loro. Questo non e uno spettacolo teatrale come giu in citta.»
Birch si strinse nelle spalle. «Vado a fare due passi», disse a Vera. «Comunque non mi allontanero. Qui si trovera benissimo.»
Vera avverti un’immediata, illogica paura, ma non si oppose.
Quando Birch si chiuse la porta alle spalle, lei capi che aveva oltrepassato il punto da cui sarebbe stato impossibile tornare.
«Questa gente dei giornali», commento la Neuberger, scuotendo la testa mentre richiudeva accuratamente l’uscio, «bisogna stare in guardia da loro. Questo Birch e uno di quelli onesti. Mi procura pazienti. Ma poi ne tira fuori degli articoli.» Accenno bruscamente verso il divano color porpora. «Lei e la piccola, sedetevi. Coraggio.»
Obbediente, Vera prese Annie per mano, e si accomodarono entrambe. Lei si era concentrata tanto intensamente sulla Neuberger da non accorgersi che la mano della bambina tremava. Notava solo in quel momento che Annie era come pietrificata.
«Ha sposato sua figlia, lei?» le domando la dottoressa.
«Prego?» rispose Vera, attonita.
«Le tiene la mano, come nelle belle statuine.»
«Penso sia un pochino spaventata.»
«Di che cosa? Di me? L’ha portata qui in macchina?»
«Si.»
«Aveva paura?»
«No.»
«E allora… non era spaventata per i pazzi che circolano in macchina, degli ubriachi e dei vagabondi, ma ha paura di me. Non e un buon segno… lei si comporta in modo sbagliato con sua figlia.»
«Perche? Che cosa le faccio, io?»
«E lei che la rende timorosa. La piccola sente che sua madre ha paura di me.»
Vera, a disagio, si agito sul divano. «Be’, forse…»
«Lei e un’insicura. Dipende da altre persone. Le va una birra?»
«Birra?»
«Sa che cos’e una birra, no?»
«In uno studio medico?»
«Signora, qui non siamo in chiesa. Birra?»
«No… grazie.»
«La bimba?»
«Birra ad Annie?»
«Signora», disse la Neuberger, con condiscendenza, «la birra non fa male ai bambini. Questa e un’altra delle storie fasulle a cui lei crede. La piccola si berra una Heineken.»
«No!» ribatte Vera con fermezza.
«Okay, io si.» La Neuberger marcio in cucina. Vera, nonostante tutti gli avvertimenti che aveva ricevuto, era terrorizzata. Quella donna era matta, dava i numeri. Sbircio l’orologio. Quando avrebbe potuto squagliarsela educatamente?
Annie le si strinse vicino e le sussurro all’orecchio: «Mamma, che cosa c’e che non va in quella signora?»
«Che cosa vuoi dire?» bisbiglio Vera.
«Parla in modo strano.»
«Be’, certe persone fanno cosi.»
«Mammina, ho paura. Credo sia una strega. Andiamo a casa.»
«Forse lo faremo. Ancora qualche minuto e poi decideremo.»
