che lui allora non lo sapeva. Si appoggio al fianco dell’edificio con una mano e con l’altra le fece segno di andarsene. Vai via. Via. Fuori dalla mia vita. Chiunque tu fossi, non c’e piu posto ora.
E si affretto in direzione degli uffici della rete. Isolato dopo isolato, ed eccoli. Una nera torre arcigna. Pareti senza finestre. Non entro. Non adesso, certo non adesso. Fredericks. Griswold. Loftus. I miei colleghi. Smith o Jones. Quell’Hamlin nell’angolo. Uno dei miei preferiti, disse Griswold. Un regalo della mia prima moglie, dieci anni fa, quando Hamlin era ancora uno sconosciuto. Tossendo. Se non vi spiace… un po’ di acqua fredda. Perdonatemi. Sapete, e il mio primo giorno fuori. La tensione. No, staremo lontani dagli uffici della rete questa sera.
E li, l’angolo fra Broadway e la 227. Dove l’aveva incontrata quel lunedi sera. Che camminava in un piccolo cerchio. Una zona chiusa di tensione sulla strada affollata. Guardandolo con un misto di stupore e felicita. Macchie di colore che punteggiavano le sue guance. Le palpebre che sbattevano; ha paura di me, si rese conto d’improvviso. Oh, Nat, grazie a Dio sei venuto. No, disse lui, stabiliamo questo una volta per tutte. Io mi chiamo Paul Macy. Cosa vuoi? Non possiamo parlare qui, disse lei. In mezzo alla gente. Per strada. Dove, allora? A casa tua? Lui scosse la testa. Assolutamente no. La mia, allora. Possiamo arrivarci in quindici minuti. E tutto sporco, ma… disse lei, e lui disse: Cosa ne dici di un ristorante? C’e un ristorante del popolo a due isolati da qui. Ci vado spesso. Lo conosci? No. Potremmo andare li, disse lei. Si.
Potrei tornarci. Adesso. Adesso. Il richiamo improvviso della fame. Due isolati. Cammino in fretta. Una spalla piu alta dell’altra. Raggiunse il ristorante. Una spartana facciata socialista, una vetrina spoglia. Dentro, uno stanzone lungo e stretto, con pareti di ottone annerito e un fascio di fili luminosi che lampeggiavano difettosamente intrecciati al soffitto di paglia. E va bene. Mangiamo qualcosa. Li dentro aveva cenato con Lissa quella sera. Si era alzato, voltato, allontanato da lei. E il suo grido. No! Torna indietro! Paul! Paul!
Dunque e qui che ti sei manifestato la prima volta? Molto bene. Entriamo.
Pensava di essere affamato, e carico abbondantemente il vassoio di carne, verdure, panini e altro. Ma quando si sedette a uno dei lunghi tavoli, scopri di non avere alcun desiderio di cibo. Mangiucchio un poco. Fisso il vuoto, e si isolo dalla realta circostante. Che pace. Potrei starmene qui seduto per sempre. Ma qualcuno gli stava toccando la spalla. Una spinta rapida, impertinente. Poi un’altra. Perche non mi lasciano in pace? Uno dei tirapiedi di Gomez, forse. Se non gli presto attenzione forse se ne andra. Cerco di affondare di piu nell’isolamento. Un’altra spinta, piu insistente. Una voce roca e aspra. — Ehi. Tu, vuoi guardarmi un secondo? Sei fumato o cosa? — Con riluttanza Macy ritorno alla realta. Una ragazza grassa, puzzolente, con un vestito grigio era in piedi accanto a lui. La sua faccia era piatta come quella di una mongola, ma la pelle era bianca, gli occhi non a mandorla. Disse: — C’e una ragazza di sopra che ha bisogno di aiuto. Tu sei quello che fa al caso.
— Di sopra? Ragazza?
— Si, tu. Ti conosco. Sei stato qui due o tre settimane fa con quella ragazza, quella con la testa rossa, quella Lisa. Sei quello che e caduto, col naso per terra, ti abbiamo dovuto portare fuori, io e la rossa e l’autista di taxi. Lisa si chiama.
— Lissa — la corresse Macy, sbattendo le palpebre.
— Lisa, Lissa, non so io. Senti, lei ti ha aiutato, adesso tu aiuta lei.
Una pellicola galleggiante di memoria. In piedi accanto alla macchina di credito alla fine del bancone, la volta prima, autorizzandola ad addebitargli dieci dollari per la cena. E una ragazza dalla faccia piatta che faceva la coda dietro di lui, che sbuffava con disprezzo. Pagava troppo? Troppo poco? Quella ragazza.
— Dov’e? — chiese Macy.
— Te l’ho detto. Di sopra. E venuta ieri, e piangeva un sacco, faceva un gran casino. Alla fine e svenuta. L’abbiamo portata in una stanza, ed e ancora li. Non mangia. Non parla. Tu la devi conoscere, percio va ad aiutarla.
— Ma dove? Di sopra, hai detto.
— La cooperativa popolare, testa dura — disse la ragazza grassa. — Dove altro? Dove altro credi che sia? — E se ne ando.
14
La cooperativa popolare, testa dura. Dove altro? Abbandonando il vassoio pieno, usci e si guardo intorno. Naturalmente: c’era un albergo associato con il ristorante. O viceversa. Condividevano l’edificio. Facciata nuda, a piastrelle verdi; un ingresso separato, ascensore per la portineria, al secondo piano. In una grande hall bassa e vuota, troppo illuminata, uno schermo offriva i dati essenziali sui residenti dell’albergo. Macy aggrottando la fronte guardo sulla
Una porta alla sua sinistra si apri, ed entro un cieco, muovendosi con sicurezza fra tavolo, sedie e altri ostacoli. Il sonar montato sulla sua testa che faceva
Stanza 1114.
Niente raffinati sistemi di comunicazione o scanner, li. Solo una semplice porta di legno. Busso e non ottenne risposta. Busso ancora. — Lissa? Sono io, Paul. — Toc toc. Silenzio. Mentre stava li, incerto sul da farsi, una ragazza usci dalla porta di fronte, una ragazza magra e ossuta, nuda, un asciugamano gettato sulla spalla, le costole in evidenza, le anche prominenti, piccoli seni appuntiti. — Cerchi Lisa? — chiese, e quando Macy annui, la ragazza disse: — E dentro. Entra.
— Ho bussato. Non risponde.
— Non risponde mai. Entra.
— La porta…
— Non ci sono serrature
— Lissa? — disse.
Una cella doveva avere piu o meno quell’aspetto. La sua stanza al Centro Riab era stata di gran lusso, al confronto. Un lungo letto stretto, una brandina piu che altro. Una sedia in plastica verde. Un basso cassettone marrone. Un lavandino scheggiato, bianco-giallastro. Una fessura di finestra, dai vetri sporchi. Pavimento spoglio, luci nude e intense. Anche Lissa era nuda, sul letto, le ginocchia sollevate, strette fra le braccia. Sembrava emaciata, quasi fragile, come se avesse perso quattro o cinque chili nelle trentasei ore in cui non la vedeva. I capelli erano una massa arruffata, gli occhi arrossati. La stanza puzzava di sudore. I suoi vestiti erano gettati in un mucchio accanto alla finestra; l’armadio, con l’anta spalancata, era vuoto; accanto al lavandino c’era la valigia verde e malconcia che aveva usato per portare le sue cose dal vecchio appartamento. I fianchi erano rigonfi; non si era data la pena di disfarla. Quando lui entro, mosse lentamente la testa dalla sua parte, e lo guardo senza guardarlo. Poi torno a fissare il cassettone marrone.
Macy passo accanto al letto e cerco di aprire la finestra, ma non c’era modo di farlo. Pronuncio ancora una volta il suo nome; lei non diede segno di averlo sentito. Inginocchiandosi accanto a lei, le prese in mano uno dei piedi, lo sollevo di una decina di centimetri, lo guardo ricadere pesantemente, fece scivolare la mano fino alla parte carnosa del polpaccio. La pelle bruciava. La febbre la stava consumando. Arrivo con la mano sulla coscia. Le sue dita si fermarono appena al di sotto del cespuglio castano dorato, ma lei sembro non accorgersene. Le scosse la coscia. Niente. Le accarezzo i seni, ne strinse uno nella mano. Niente. Strofino con il pollice il capezzolo. Zero. Le passo le dita davanti agli occhi. Lei sbatte le palpebre una volta. — Lissa? — disse per la terza volta. Lei era persa, avvolta in un bozzolo di introspezione. Al di la dei suoi richiami. Chiunque poteva farle qualsiasi cosa, e