Mi prende la mano, mi attira accanto a se. Come mi sento idiota, ad aver bisogno di essere adescato in tal modo! Faccio proprio la figura del vergine, nell’atteggiamento se non nell’esperienza pratica.
Margo si china sul mio palmo, titillandomi. — Questa, vedi, e la linea della vita. Oh, com’e lunga!
D’accordo. Faro il tuo gioco, Margo. Di colpo il mio braccio le cinge le spalle, la mia mano striscia verso il suo seno.
— Oh, si, Eh, si, si! — Con calore forzato.
Un abbraccio; un bacio appiccicoso. Le sue labbra si aprono e io faccio quel che devo fare. Ma non provo nessuna passione, ne profonda ne viceversa. Tutto cio mi sembra formale, un minuetto, una cosa programmata dall’esterno: non riesco a collegarla al concetto di fare l’amore con Margo. Irreale, irreale, irreale. Non provo desiderio neppure quando lei scivola via da me e si toglie i calzoncini, rivelando anche aguzze, solide natiche da ragazzino, fitti riccioli dorati.
Margo mi sorride, mi chiama, m’invita. Per lei la faccenda non e certo piu apocalittica di una stretta di mano, di un bacetto sulle guance.
Per me, invece, e una catastrofe cosmica. Eppure dovrebbe essere facilissimo. Giu le braghe, sopra di lei, dentro di lei, tic-tuc-tac, aaaahh! Ma io soffro di intellettualismo sessuale: sono troppo impregnato del concetto di Margo come irraggiungibile simbolo di perfezione per rendermi conto che Margo e raggiungibilissima e non e poi cosi perfetta (la pallida cicatrice dell’appendicectomia; sottili smagliature ai fianchi, le morene frontali di una corporatura piu adiposa in eta prepubere; cosce un filino troppo sottili).
Ma poi me ne rendo conto e mi butto. Si, mi spoglio, e si, corriamo sul letto, e si, non ho erezione, e si, Margo mi aiuta, e infine la libidine trionfa sull’imbarazzo e io divento tutto duro e palpitante come si conviene, e poi, come un toro selvaggio delle
Non riesco neanche a guardarla in faccia. Rotolo via da lei, nascondo la testa nel cuscino, ricopro d’ingiurie me stesso, Timothy, D. H. Lawrence.
— Posso fare qualcosa per te? — mi domanda Margo, dandomi un colpetto sulla schiena sudata.
— Vai via, per favore — le dico. — Per favore. E non dire niente a nessuno.
Ma naturalmente lei ha raccontato ogni cosa. E tutti hanno appreso tutto. La mia goffaggine, la mia incompetenza piu che ridicola, i miei cento complessi culminanti alla fine in cento tipi diversi d’impotenza. Eli lo
E un altro fiasco ancora potremmo trovarcelo davanti proprio adesso, mentre arranchiamo in questa
Ma la Casa dei Teschi c’e.
Il viottolo segue una curva leggera, conducendoci in macchie ancora piu fitte di
Da sinistra a destra si stende una fila di neri teschi di basalto, simili a quello che abbiamo incontrato lungo il viottolo ma molto piu piccoli, all’incirca delle dimensioni di un pallone da pallacanestro, e ficcati nella sabbia a intervalli di un mezzo metro. All’estremita della fila di teschi, una cinquantina di metri piu in la, vediamo la Casa dei Teschi, accovacciata nel deserto come una sfinge: una costruzione abbastanza grande, a un piano solo, col tetto piatto e le pareti rivestite di intonaco rustico color giallobruno. Sette colonne di pietra bianca decorano la facciata, priva di finestre.
L’effetto di assoluta sobrieta e attenuato soltanto dal fregio che corre lungo il frontone: teschi in bassorilievo, che presentano il profilo sinistro. Guancia incavata, narice rientrante, enorme occhio tondo. Bocca spalancata in un orrendo sogghigno. I denti, scolpiti con cura, sembrano sul punto di affibbiare un morso feroce. E la lingua — ah, che tocco sinistro, un teschio con la lingua! — e piegata in un’elegante e orrenda curva ad A; la punta esce appena dai denti, guizzando come la lingua biforcuta di un serpente.
Questi teschi sono decine e decine, ossessivamente identici, congelati in un’immobilita arcana, e uno dopo l’altro avanzano fino a scomparire dietro l’angolo della costruzione. Hanno quell’aria da incubo che riscontro nella maggior parte dell’arte messicana precolombiana. Sarebbero piu appropriati, mi sembra, lungo il bordo di un altare su cui si usi tagliare dal petto ancora palpitante della vittima, con un coltello di ossidiana, il cuore ancora vivo.
L’edificio e a forma di U, con due ali che partono dal corpo centrale. Non vedo porte. Al centro dello spiazzo, pero, una quindicina di metri davanti alla facciata dell’edificio, si vede un’apertura bordata di pietra, che dovrebbe condurre a un sotterraneo: sbadiglia, buia e misteriosa, simile all’ingresso del mondo degl’Inferi.
Comprendo subito che dev’essere il passaggio per accedere alla Casa dei Teschi. Mi avvicino e guardo dentro. Tenebre assolute. Dobbiamo farci coraggio e andare giu? Non sarebbe meglio aspettare che sbuchi qualcuno e c’inviti? Ma non sbuca nessuno, e il caldo e bestiale. Mi sento la pelle del naso e delle guance diventare sempre piu gonfia e dolente: e gia mezza giornata che il mio pallore invernale e esposto al sole del deserto.
Ci guardiamo in faccia, perplessi. Il Nono Mistero arde nella mia mente, e certo anche nella loro. Potremmo entrare benissimo, si; ma poi ne torneremmo fuori solo in due. Chi sopravvivera, chi morira?
Esamino di malavoglia quali potrebbero essere i candidati alla dipartita, soppesando a uno a uno i miei amici. Consegno rapidamente alla morte Timothy e Oliver, poi li ritiro, rivedo questo giudizio affrettato, sostituisco Oliver con Ned, Timothy con Oliver, Ned con Timothy, Timothy con me stesso, me stesso con Ned, Ned con Oliver, e via via, indeciso, senza concludere nulla.
La mia fede nella veridicita del Libro dei Teschi non e mai stata forte come ora. La mia certezza di trovarmi alle soglie dell’infinito non e mai stata piu grande o piu terrificante.
— Andiamo — dico con voce roca e tremula, e con qualche passo esitante mi porto sull’orlo dell’apertura. Una ripida scala di pietra conduce giu nel sotterraneo. Cinque, sei, sette gradini, e mi trovo in una galleria buia, larga ma bassa, non piu di un metro e mezzo dal pavimento al soffitto. L’aria e freddissima. Qualche esile filo di luce mi consente di scorgere la decorazione delle pareti: teschi, teschi, teschi. Finora non abbiamo visto il minimo frammento d’iconografia mentre invece domina incontrastato il simbolo della morte.
Ned, da sopra, mi lancia una voce. — Che cosa vedi?
Io descrivo la galleria e dico a loro tre di seguirmi. Esitando, strascicando i piedi, scendono tutti: Ned, poi Timothy, infine Oliver. Io abbasso la schiena e mi avvio in testa.
L’aria si fa sempre piu gelida. Non si vede piu niente, salvo il tenue bagliore rossastro dell’entrata. Cerco di non perdere il conto dei miei passi. Dieci, dodici, quindici. Ormai dovremmo essere sotto l’edificio.
Improvvisamente mi trovo davanti una barriera di pietra levigata: una lastra unica, che blocca interamente la galleria. Me ne accorgo all’ultimo istante, cogliendo un riflesso biancastro della debolissima luce, e mi arresto di colpo prima di sbatterci il muso.
Un cul di sacco? Si, naturalmente. Mi aspetto di udire dietro di noi il clangore di una lastra di pietra da venti tonnellate che cala sull’ingresso della galleria, lasciandoci li in trappola a morire di fame o asfissiati mentre negli orecchi ci risuonano scrosci di risate mostruose.
Ma non succede nulla di cosi melodrammatico. Tanto per provare, premo la mano sulla fredda lastra di pietra che ci blocca il cammino… e la lastra (sembra di essere nel Palazzo Incantato, a Disneyland) si apre, ruotando con estrema dolcezza. E bilanciata perfettamente: basta un minimo tocco per farla muovere.
E giusto, rifletto tra me e me, che l’ingresso nella Casa dei Teschi debba avvenire in questo modo da opera lirica. Mi aspetterei anche un triste accompagnamento di corni e tromboni, e un coro di bassi che intona il Requiem a rovescio:
In alto si vede un’apertura. Ci rimettiamo in cammino, sempre a schiena piegata. Un’altra scala. Su per i gradini.