nero.
Da qualche parte, verso la 180a Strada, alzo la testa e vedo una ragazza seduta nell’angolino diagonalmente opposto al mio e che apparentemente mi sta studiando. Ha poco piu di vent’anni, attraente in modo strano, con lunghe gambe, seni discreti, un cespuglio di capelli castano chiaro con riflessi ramati. Ha anche un libro… l’edizione in brossura dell’
Pero poi arriva, disturbato dapprima, via via che colgo i mugolii indistinti e in sordina di tutti i passeggeri attorno a me; poi arriva, limpido, il dolce tono della sua anima. Sta pensando a un corso di karate che iniziera a frequentare questa mattina stessa, nella 96a strada. E innamorata del suo istruttore, un muscoloso giapponese butterato. Si incontrera con lui questa notte. Indistintamente nella sua mente ondeggia il ricordo del gusto dell’amore e l’immagine del suo possente corpo nudo che grava su di lei. Non c’e proprio nulla, nella sua mente, che mi riguardi. Sono solo parte dello scenario, come la pianta del sistema metropolitano sulla parete sopra la mia testa. Selig, il tuo egocentrismo ogni volta ti ammazza. Osservo che lei, di fatto, adesso ha sulle labbra un timido sorriso, pero non e per me, e quando si accorge che la sto fissando, il sorriso si tronca di colpo. Riporto l’attenzione sul mio libro.
Il treno mi obbliga a una spiacevole imprevista fermata nel tunnel dalla parte della stazione nord della 137a Strada; finalmente si rimette in moto e mi scarica alla 116a Strada, Columbia University. Mi arrampico verso la luce del sole. La prima volta che mi arrampicai per queste scale fu piu di un quarto di secolo fa, nell’ottobre del ’51: un atterrito neo-diplomato, con tanto di acne e capelli a spazzola, appena uscito da Brooklyn per affrontare il colloquio di ammissione al college. Nella hall dell’Universita, sotto quelle luci brillanti. L’esaminatore mi soppeso con aria feroce: come, diplomato? Questo qui deve avere 24, 25 anni. Comunque mi permisero di entrare nel loro college. Poi quella divento la mia stazione quotidiana del metro, a cominciare dal settembre del ’52 e via di seguito fino a quando, alla fine, andai via di casa e traslocai vicino al campus.
A quei tempi c’era un vecchio chiosco di ghisa al livello della strada che segnava l’accesso alla sotterranea; era proprio tra due corsie piene di traffico, e gli studenti, le menti assenti infarcite di Kierkegaard, Sofocle e Fitzgerald, finivano sempre per andare a sbattere contro le macchine e restare uccisi. Adesso il chiosco non c’e piu e gli accessi alla metropolitana sono sistemati piu razionalmente, sui marciapiedi.
Cammino lungo la 116a. Alla mia destra, l’ampio prato di South Field; alla mia sinistra, i bassi gradini che portano alla Low Library. Ricordo South Field quando era un campo per l’atletica proprio in mezzo al campus: sporcizia scura, le linee di base, una palizzata. Nel mio anno di matricola ho giocato a softball, li. Avevamo gli armadietti nella hall dell’Universita, e andavamo la a cambiarci; poi, con addosso scarpette da ginnastica, camiciotti a maniche corte e calzoncini d’un grigio sbiadito, sentendoci nudi in mezzo agli altri studenti in abito da passeggio o in uniforme ROTC, facevamo di corsa gli interminabili gradini che portano al South Field per un’ora di attivita all’aria aperta. Ero bravo a softball. Non tanti muscoli, ma riflessi pronti e buon occhio, e poi avevo il vantaggio di sapere quello che aveva in testa il lanciatore. Lui se ne stava li a pensare: 'Questo qui e troppo magrolino per il gioco pesante, gli faro un tiro alto e veloce', e io attendevo la palla al punto giusto e la scaraventavo nella zona di sinistra, toccando tutte le basi prima che chiunque si rendesse conto di che cosa stava succedendo. Oppure gli altri tentavano una specie di rozza strategia del tipo batti-e-corri, e io mi muovevo senza sforzo per prendere al volo il battitore e cominciare il secondo giro.
Ovviamente era soltanto softball e i miei compagni facevano di solito la figura dei grassi e degli inetti, che non riuscivano neppure a correre (se solo avessero potuto leggere il pensiero), mentre io gustavo l’insolita sensazione di essere un atleta fuori del comune e fantasticavo di giocare da interbase per i Dodgers. I
Salgo i gradini e mi metto a sedere a una decina di metri alla sinistra della statua di bronzo dell’Alma Mater. E questo il mio ufficio, con il buono o con il cattivo tempo. Gli studenti sanno dove cercarmi, e quando io mi trovo li la voce fa presto a spargersi. Ci sono altre cinque o sei persone che forniscono il servizio che fornisco io — laureati senza soldi, in genere — pero io sono il piu perspicace e il piu attendibile, e ho un seguito entusiasta. Oggi, pero, gli affari stentano ad avviarsi. Sono qui seduto da venti minuti, diventando via via sempre piu irrequieto, dando distratte occhiate a Beckett, restando a fissare l’Alma Mater. Qualche anno fa un dinamitardo estremista le apri un foro nel fianco; pero adesso non c’e nessun segno del danno. Ricordo di essere rimasto attonito alla notizia, e poi di essermi meravigliato per la mia reazione: perche avrei dovuto prendermela per una stupida statua che simboleggiava una stupida scuola? Questo avveniva intorno al 1969, credo. Laggiu, nel Neolitico.
— Mr. Selig?
Un grande muscoloso ragazzone, che torreggia su di me. Spalle colossali, una faccia paffuta, innocente. E profondamente imbarazzato. Ha appena preso 18 in composizione letteraria e gli occorre immediatamente un saggio sui romanzi di Kafka, che lui non ha letto. (E la stagione del football; e una mezz’ala ed e proprio assolutamente indispensabile alla squadra). Gli dico le condizioni e lui frettolosamente accetta. Mentre resta li in piedi, io, di nascosto, lo 'leggo' rapidamente, rilevando il suo quoziente intellettivo, il suo probabile vocabolario, il suo stile. E piu sveglio di quel che sembra. La maggior parte lo e. Potrebbero scrivere i loro saggi da se, piuttosto bene, se soltanto ne avessero il tempo. Io prendo alcuni appunti, mettendo per iscritto le mie immediate impressioni sul suo conto, e lui va via tutto contento. Dopodiche, gli affari si fanno vivaci: lui manda un 'fratello' della sua associazione studentesca, il fratello di associazione manda un amico, l’amico manda da me uno dei
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Quando aveva sette anni e mezzo e creava una quantita enorme di problemi al suo insegnante di terza, mandarono il piccolo David dallo psichiatra scolastico, il dottor Hittner, per un controllo. L’istituto era uno di quelli privati, costosi, su una tranquilla stradina tutta coperta di foglie, nella zona di Park Slope a Brooklyn; l’orientamento era socialista-progressista, con una pesante base pedagogica marxista, freudiana e deweyana, e lo psichiatra, uno specialista nei disturbi dei ragazzi della classe media, veniva ogni mercoledi pomeriggio per scrutare nell’animo di bambini difficili. Adesso era la volta di David. I suoi genitori diedero il loro consenso, naturalmente.
Erano molto preoccupati per il suo comportamento. Tutti erano d’accordo che lui era un ragazzino brillante: era straordinariamente precoce, dotato di una capacita di capire quel che leggeva pari a quella di un ragazzo di