ringhio sordo.

«Tu» fece il Conte, infilzando l’aria con un dito tremante. «Ti conosco, de Carabas. Non ho dimenticato. Saro anche vecchio, ma non ho dimenticato.»

Il Marchese fece un inchino.

«Posso ricordare a vostra grazia» disse cortesemente «che avevamo fatto un patto? Io ho negoziato il trattato di pace tra la vostra gente e Raven’s Court, e in cambio voi eravate d’accordo a concedermi un piccolo favore.»

Allora esiste una Raven’s Court, penso Richard. Chissa com’e? Chissa se c’e un corvo?

«Un piccolo favore?» disse il Conte. Aveva assunto un intenso color barbabietola. «E cosi che lo chiami? Ho perso decine di uomini per la tua stupidita durante la ritirata da White City. Ho perso un occhio.»

«E se mi e permesso dirlo, vostra grazia,» disse garbatamente il Marchese «avete una benda molto affascinante. Si adatta alla perfezione al vostro viso, mettendolo in risalto.»

«Ho giurato…» esplose il Conte, la barba che si rizzava, «ho giurato… che se mai avessi rimesso piede sui miei domini, ti avrei…» esito. Scosse il capo, quindi riprese. «Mi tornera alla mente. Io non dimentico.»

«Avrebbe potuto non gradire particolarmente la tua vista?» sussurro Porta a de Carabas.

«Be’, non la gradisce» bofonchio lui in risposta.

Di nuovo Porta si fece avanti. «Vostra grazia,» disse con voce alta e chiara, «de Carabas e qui con me come mio ospite e mio compagno. Per la fratellanza che c’e sempre stata tra la vostra famiglia e la mia, per l’amicizia che legava mio padre e…»

«Ha abusato della mia ospitalita» tuono il Conte. «Ho giurato che… se mai fosse entrato di nuovo nei miei domini l’avrei fatto sbudellare e lasciato a rinsecchire… come, come qualcosa che e stato, hmm, prima sbudellato e poi, be’, messo a seccare, hmm…»

«Forse — un’aringa, mio signore?» suggeri il giullare.

Il Conte si strinse nelle spalle. «Non ha importanza. Guardie, prendetelo!»

Lo fecero. Anche se tutte le guardie avevano gia visto i sessanta, reggevano ognuna una balestra, puntata alla gola del Marchese; e le loro mani non tremavano, ne per eta ne per paura.

Richard guardo Hunter. Sembrava che la cosa non la disturbasse affatto: osservava la situazione quasi divertita, come chi ammira la rappresentazione di una piece teatrale.

Porta si mise a braccia conserte, la schiena ben dritta e la testa all’indietro, il mento appuntito sollevato e deciso. Non sembrava quasi piu un cencioso folletto di strada, ma piuttosto una persona abituata a ottenere cio che vuole. Gli occhi dallo strano colore lampeggiavano. «Vostra grazia, il Marchese e con me, mi accompagna nella ricerca. Le nostre famiglie sono amiche da cosi lungo tempo…»

«Si, lo sono» interruppe il Conte. «Da centinaia di anni. Centinaia e centinaia. Conoscevo anche tuo nonno. Tipo simpatico. Un po’ vago.»

«Ma sono costretta ad affermare che considerero qualunque atto di violenza contro il mio compagno come un atto di aggressione contro di me e la mia casata.» La ragazza fisso il vecchio, che torreggiava sopra di lei. Rimasero immobili per qualche istante, come congelati. Il Conte, in preda all’agitazione, si tirava la barba rossa e grigia, quindi sporse in avanti il labbro inferiore come fanno i bambini piccoli. «Non ce lo voglio, qui» disse.

Il Marchese estrasse dal taschino l’orologio d’oro che aveva trovato nello studio di Portico. Lo esamino con noncuranza, poi si rivolse a Porta come se nessuno dei fatti appena accaduti si fosse mai verificato. «Mia signora,» disse «ti saro certamente piu utile fuori da questo treno. Ho molte altre strade da esplorare.»

«No» disse lei. «Se te ne vai tu, ce ne andiamo tutti.»

«Non credo sia il caso» rispose il Marchese. «Hunter si prendera cura di te finche sei a Londra Sotto. Ci incontreremo al prossimo mercato. E nel frattempo, non fare niente di stupido.»

Il treno si stava fermando a una stazione.

Porta fisso lo sguardo sul Conte: grandi occhi dallo strano colore in un viso pallido a forma di cuore. «Lo lascerete andare in pace, vostra grazia?» chiese.

Lui si passo la mano sul volto, strofino prima l’occhio buono, poi la benda, quindi guardo la ragazza.

«Lasciatelo andare» disse il Conte. «Ma la prossima volta…» fece correre un ditone rugoso in orizzontale all’altezza del pomo d’Adamo «… Aringa.»

«Conosco la strada» disse il Marchese alle guardie, e si diresse verso la porta aperta.

Halvard sollevo la balestra e la punto in direzione della schiena del Marchese. Hunter allungo la mano e abbasso la punta dell’arma verso il pavimento.

Il Marchese mise piede sulla banchina, si volto e fece un ironico ciao-ciao con la manona. La porta si chiuse dietro di lui con un sibilo.

Il Conte si sedette sul grande scranno in fondo al vagone, senza proferire parola.

Il treno sferragliava e rollava nel tunnel buio.

«E le buone maniere?» brontolo tra se il Conte. Li guardo con l’occhio fisso. Poi ripete la frase, con un boato cosi poderoso che Richard pote sentirlo rimbombare nello stomaco, come un colpo di grancassa. «DOVE SONO LE ME BUONE MANIERE?»

Fece avvicinare uno degli anziani armigeri. «Saranno affamati dopo il viaggio, Dagvard. E pure assetati, senza dubbio.»

«Si, vostra grazia.»

«Fermate il treno!» grido il Conte.

Le porte si aprirono sibilando e Dagvard si affretto a raggiungere la banchina.

Richard fece caso alle persone sulla banchina. Nessuna sali sulla loro carrozza. Nessuna pareva notare qualcosa di strano.

Dagvard si diresse a un distributore automatico in un angolo. Si tolse l’elmo, quindi batte ritmicamente sul lato della macchina con il guanto di ferro.

«Ordini del Conte» disse. «Cioccolato.»

Un ronzio del motorino in fondo alle viscere della macchina, ed ecco che decine di barrette al cioccolato vennero sputate fuori, una dopo l’altra Dagvard le raccolse nell’elmo di metallo.

Le porte stavano cominciando a richiudersi. Halvard infilo l’impugnatura della picca tra le due porte scorrevoli che si aprirono di nuovo e cominciarono a fare apri-chiudi sbattendo contro l’impugnatura dell’arma.

«Si prega di non ostruire il passaggio» disse una voce dall’altoparlante. «Il treno non puo ripartire se le porte non sono tutte chiuse. »

Il Conte, un po’ sbilenco, stava osservando Porta con l’occhio buono.

«Allora. Cosa ti conduce da me?»

Lei si inumidi le labbra. «Be’, vostra grazia, indirettamente la morte di mio padre.»

Annui compassato. «Gia. Cerchi vendetta. Con ragione, peraltro.» Tossi, quindi, con tono basso e profondo declamo, «Valorosa e la lama che combatte, lampeggia il fuoco furioso, spada d’acciaio affondata nell’odiato cuore, rosso il… il… qualcosa. Gia.»

«Vendetta? Si, e cio che ha detto mio padre. Ma io voglio solo capire cosa e successo e proteggere la mia persona. La mia famiglia non aveva nemici.»

In quel mentre, Dagvard ritorno barcollando sul treno con l’elmo pieno di barrette di cioccolato e di lattine di Coca Cola; le porte poterono chiudersi e il treno riparti.

Il cappotto era coperto di monetine, banconote — e scarpe. Scarpe calzate da piedi che prendevano a calci i soldi di metallo, schiacciavano e strappavano quelli di carta, lacerando la stoffa del cappotto. C’era denaro dappertutto.

«Lasciatemi solo» implorava Lear. Aveva le spalle contro il muro del sottopassaggio. Lungo il viso colava del sangue, che gli tingeva di rosso la barba. Il sassofono gli pendeva mollemente e goffamente sul petto.

Era circondato da un piccolo gruppo di persone — piu di venti, meno di cinquanta — che si urtavano e si spingevano, una massa irrazionale, gli occhi vuoti e fissi, che lottava e graffiava nel disperato tentativo di dare a Lear il proprio denaro.

Anche sulla parete piastrellata c’era del sangue, nel punto in cui Lear aveva battuto la testa. Lear allungo un braccio per colpire una donna di mezza eta con la borsetta spalancata e un pugno di biglietti da cinque che avanzava verso di lui. Nella foga di dargli il denaro, gli graffio il viso. Lui si giro per evitarla e cadde sul pavimento del tunnel.

Qualcuno gli calpesto la mano. La faccia gli fu spinta in una poltiglia di soldi. Comincio a singhiozzare, e a inveire.

«Te l’avevo detto di non abusarne» disse una voce elegante poco lontano. «Birbantello.»

«Aiutami» rantolo Lear.

«Be’, ci sarebbe un controincantesimo» ammise la voce, quasi riluttante.

La folla stava premendo sempre piu da presso, ora. Il lancio di una moneta da cinquanta pence gli taglio la guancia. Si acciambello in posizione fetale, abbracciandosi e nascondendo il viso tra le ginocchia.

«Recitalo, dannazione» disse Lear. «Tutto quello che vuoi… basta che li fai smettere…»

Il suono di un fischietto sali dolcemente e echeggio nel sottopassaggio. Una frase semplice, ripetuta piu e piu volte, ogni volta leggermente diversa: le variazioni di de Carabas.

I passi si allontanarono. Strascicati, all’inizio, poi con un certo ritmo. Si allontanavano da lui. Apri gli occhi.

Il Marchese de Carabas se ne stava appoggiato contro il muro, suonando il fischietto. Quando vide che Lear lo guardava, si tolse il fischietto dalle labbra e lo ripose in una tasca interna. Getto a Lear un rattoppato fazzoletto di lino bordato di pizzo perche si togliesse il sangue dalla fronte e dal viso.

«Mi avrebbero ammazzato» disse, con aria accusatoria.

«Ti avevo avvertito» disse de Carabas. «Ritieniti fortunato che passavo da queste parti.»

Aiuto Lear a mettersi seduto.

«Ora» disse de Carabas «penso proprio che tu mi debba un altro favore.»

Lear sollevo il cappotto — strappato, sporco di fango e coperto dalle impronte di tanti piedi — dal pavimento del sottopassaggio. All’improvviso sentiva molto freddo e si avvolse il cappotto a brandelli intorno alle spalle. Monete e banconote caddero a terra, precipitando o svolazzando. Le lascio dov’erano.

«Sono stato davvero fortunato o l’hai fatto apposta?»

Il Marchese sembrava quasi offeso. «Non so proprio come puoi arrivare a pensare una cosa di questo genere.»

«Perche ti conosco. Ecco come. Allora, di che si tratta stavolta? Furto? Incendio? Omicidio?» Lear sembrava rassegnato, e anche un po’ triste.

De Carabas si allungo verso di lui e si riprese il fazzoletto. «Furto, temo» disse. «Mi trovo nell’urgente necessita di procurarmi una statuetta della dinastia Tang.»

Lear rabbrividi. Poi, lentamente, annui.

A Richard venne data una barretta al cioccolato di quelle piccole, del tipo da distributore automatico, e una larga coppa d’argento, decorata intorno al bordo con pietre che gli sembravano zaffiri. La coppa era piena di Coca Cola.

«Vorrei proporre un brindisi ai nostri ospiti» disse Tooley, il vecchio giullare. «Una bambina, una guardia, uno sciocco. Possa ognuno di loro ricevere cio che merita.»

«Quale sono io?» bisbiglio Richard a Hunter.

«Lo sciocco, e ovvio» gli bisbiglio di rimando.

«Ai vecchi tempi» commento Halvard malinconico, dopo avere sorseggiato la Coca Cola, «bevevamo vino. Io preferisco il vino. Non e cosi appiccicoso.»

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