Quando li vidi, io rimasi solo sorpreso. Loro furono esterrefatti, e anche furibondi. — Maledizione, Mitzi! — sbraito Dambois, — questo e troppo! Cosa ci fa qui quel mokomane.

Avrei potuto dirgli che non ero u un mokomane, esattamente. Non ci provai neanche. Stavo usando tutte le mie facolta mentali per capire cosa significasse la loro presenza li. In ogni modo, non avrei avuto il tempo di dirglielo, perche il Vecchio alzo una mano. La sua faccia era come granito. — Tu, Val — ordino. — Rimani cui e tienilo d’occhio. Voi altri venite con me.

Li guardai uscire: Mitzi, il Vecchio e la donna: un tipo piccoletto, tozzo, e quello che aveva mormorato, vedendomi, pareva avesse un accento. — E della RussCorp, vero? — chiesi a Dambois, e lui mi diede la risposta che aspettavo. Ringhio:

— Zitto!

Annuii. Non aveva bisogno di confermarmelo. Il semplice fatto che lui e il Vecchio si fossero infilati nell’appartamento di Mitzi in quella maniera, mi aveva detto tutto quello che avevo bisogno di sapere. La cospirazione era molto piu grossa di quanto Mitzi avesse ammesso. E molto piu antica. Come aveva fatto i soldi il Vecchio? Con una «lotteria» che aveva vinto non si sa come. E Mitzi come aveva fatto i suoi? Grazie al pagamento dei danni subiti in un «incidente». E Dambois? Da «profitti commerciali». Tutti da Venere. Tutti incontrollabili dalla Terra.

Tutti utilizzati per lo stesso scopo.

E se la RussCorp era implicata, il piano non si limitava all’America. Dovevo dedurne che aveva implicazioni mondiali. Dovevo dedurne che per ogni frammento di informazione che Mitzi mi aveva fornito con tanta riluttanza, c’era dietro una montagna intera. — Puoi anche raccontarmi qualcosa — osservai rivolto a Dambois. — Dopo tutto, finora non ho detto una parola.

E naturalmente lui rispose solo: — Sta’ zitto.

— Ma certo — dissi annuendo. — Be’, ti dispiace se prendo del caffe?

— Non muoverti — scatto lui, poi ci ripenso, e disse con riluttanza:

— Te lo prendo io, ma tu non muoverti. — Ando in cucina, ma senza staccarmi gli occhi di dosso. Sa il cielo cosa si aspettava. Io rimasi immobile, come mi era stato ordinato, ascoltando le voci che giungevano dalla camera da letto, in una discussione accalorata. Non riuscivo a distinguere le parole. D’altra parte, non ne avevo bisogno. Potevo immaginarmi benissimo di cosa stessero discutendo.

Quando uscirono, scrutai le loro facce. Erano tutte serie. Quella di Mitzi era impenetrabile. — Siamo giunti a una decisione — disse cupamente. — Siedi e bevi il tuo caffe, e te la diro.

Bene, era il primo raggio di speranza in un cielo nuvoloso. Ascoltai con attenzione. In primo luogo — disse lei lentamente, — e stata colpa mia. Avrei dovuto farti uscire un’ora fa. Lo sapevo che c’era una riunione.

Annuii, per far vedere che ascoltavo, cercando di decifrare le loro espressioni. Nessuna mi forni qualche indizio. — Si? — dissi vivacemente.

— Percio sarebbe sbagliato, moralmente sbagliato — disse lei, pronunciando ogni parola a un certo intervallo dal] altra, come se le soppesasse una ad una, — affermare che tu abbia qualche colpa. — Fece una pausa, come se si aspettasse da me una risposta.

— Grazie — dissi nervosamente, sorseggiando il caffe. Ma lei non continuo. Si limito a guardarmi, e cosa strana, l’espressione della sua faccia non cambio, ma la faccia si. Divenne indistinta. I tratti si mescolarono. L’intera stanza si oscuro e parve restringersi… Mi ci volle tutto quel tempo per accorgermi che il caffe aveva un leggero sapore strano.

In quel momento, non avrei mai voluto aver scritto quella lettera di suicidio. Lo desiderai con tutto il mio essere, fino a quando i miei desideri smisero di funzionare, e cosi pure i miei occhi, e le mie orecchie, e cosi pure, nel mezzo di un urlo silenzioso di terrore, con cui invocavo ancora una possibilita, pregavo di vivere un altro giorno, il mio cervello.

Il mondo era sparito, mi aveva lasciato.

2

Anche allora Mitzi doveva aver combattuto aspramente per me. Quello che mi avevano infilato nel caffe non era stato letale, dopo tutto. Mi aveva solo fatto addormentare profondamente.

Nel sogno qualcuno grido: «Prima chiamata, fra cinque minuti!», e io mi svegliai.

Non ero piu nell’appartamento di Mitzi. Ero in una piccola cella disadorna, con una porta e una finestra, e fuori era buio.

Una volta convintomi del fatto strano di essere vivo, mi guardai attorno. Non ero legato, come scoprii con mia sorpresa, ne pareva che fossi stato picchiato, di recente. Ero sdraiato piuttosto comodamente su un lettino, con un cuscino sotto la testa, e una leggera coperta sul mio corpo mezzo spogliato. Vicino al letto c’era un tavolo. Sul tavolo c’era un piatto con dei cereali, un bicchiere di Vitafrut, e fra i due una busta del tipo utilizzato per i messaggi di Agenzia segretissimi. L’aprii e la lessi in fretta, prima che scadesse il tempo. Diceva:

Caro Tenny, non puoi piu continuare a vivere da drogato. Se sopravviverai alla disintossicazione, ci rivedremo. Buona fortuna!

Non c’era alcuna firma, ma un P.S.:

Abbiamo molti amici al centro che ci diranno come te la cavi. Devo dirti che sono autorizzati ad assumere iniziative autonome.

Rimuginai nella mente le parole «iniziative autonome»… e ci misi un momento di troppo, perche la carta prese fuoco e mi scotto le dita. Lasciai cadere le braci in fretta e furia e mi guardai attorno.

Non c’era molto da vedere. La porta era chiusa a chiave. La finestra era di vetro infrangibile, sigillata. Evidentemente quel centro non voleva che io abbandonassi la disintossicazione. La cosa aveva un aspetto minaccioso, e non c’erano piu le pillole verdi ad attutire la sensazione. Comunque, c’era da mangiare e io avevo una gran fame. Evidentemente ero rimasto addormentato a lungo. Mentre allungavo una mano verso il Vitafrut, si scateno l’inferno. La voce che urlava nel mio sogno non era un sogno. Adesso urlo: — Ultima chiamata! Tutti fuori! — E non c’era solo la voce. Era accompagnata da sirene e campane, per essere sicuri che avessi sentito; la serratura della porta si apri, e nel corridoio si senti un rumore di piedi in corsa, accompagnato da colpi battuti su ogni porta. — Fuori! — grido un individuo in carne ed ossa, guardandomi torvo e facendomi segno col dito.

Non vidi ragione per protestare, dal momento che era almeno due misure piu grosso di Des Haseldyne.

Indossava una tuta da ginnastica blu. E cosi pure una dozzina di altri individui, quelli che urlavano. Avevo visto un paio di short, e li avevo afferrati all’ultimo minuto, sentendomi terribilmente nudo… ma non solo. Oltre agli aguzzini in tuta, c’erano una ventina di altri esseri umani, che uscivano dall’edificio, tutti svestiti quanto me, e con un’aria altrettanto infelice. Ci spinsero fuori, nell’aria umida e piena di smog, ancora buia, anche se si scorgeva uno scoraggiante chiarore rossastro in un angolo del cielo, e noi ci stringemmo 1 uno all’altro, aspettando che ci dicessero cosa dovevamo fare. Era, come sotto le armi pensai.

No, mi sbagliavo. Era molto peggio che sotto le armi. L’addestramento militare almeno inizia con individui in discreta salute. Fra i miei compagni, non c’era nessuno che lo fosse anche lontanamente. Ce n’era di tutte le forme e dimensioni, tranne che buoni. C’era una donna che doveva pesare piu di un quintale e mezzo, e un paio d’altri, di entrambi i sessi, che forse pesavano meno, ma in compenso erano molto piu piccoli, e straripavano da sopra le cinture. C’erano degli spaventapasseri piu magri di me e almeno altrettanto consumati. C’erano uomini e donne piuttosto anziani, che non parevano del tutto disumani, a parte il fatto che avevano dei tic che non riuscivano a controllare: portavano in continuazione la mano alla bocca, nei gesti ripetuti all’infinito del fumare, del mangiare, del bere. Ma non avevano niente in mano. Ah gia, pioveva.

I guardiani ci spinsero in un gruppo disordinato in mezzo a un quadrato di cemento, circondato da bassi edifici simili a baracche militari. Sulla porta dell’edificio da cui eravamo appena usciti, c’era una scritta:

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