— Deve essere un ordine generale. Il Comando della Forza d’Attacco e lontano da qui diverse settimane- luce. Non possono neppure sapere che ci siamo arruolati di nuovo.

— E la nostra… — Marygay non fini la frase.

La garanzia. — Be’, ci hanno dato davvero l’incarico che avevamo scelto. Nessuno aveva garantito che l’avremmo tenuto per piu di un’ora.

— E uno schifo.

Scrollai le spalle. — E l’esercito. — Ma avevo due sensazioni inquietanti:

Che avessimo sempre saputo quello che sarebbe successo.

Che stavamo tornando a casa.

PARTE TERZA

Tenente Mandella

(2024-2389 d.C.)

26

— Un sistema svelto e sporco. — Stavo guardando il sergente del mio plotone, Santesteban, ma parlavo a me stesso. E chiunque altri mi stesse a sentire.

— Gia — disse lui. Bisogna farcela nei primi due minuti, o si e fregati. — Era molto laconico. Drogato.

Il soldato semplice Collins mi si avvicino insieme alla Halliday. Quelle due si tenevano ancora per la manina, quasi senza rendersene conto. — Tenente Mandella? — La sua voce si spezzo. — Possiamo avere un minuto? Un minuto solo?

— Un solo minuto — dissi io, troppo bruscamente. Dobbiamo partire fra cinque, mi dispiace.

Mi era difficile guardare quelle due insieme, adesso. Nessuna aveva la minima esperienza di combattimento. Ma sapevano tutti: che avevano pochissime probabilita di rivedersi ancora. Si accasciarono in un angolo e si scambiarono mormorii e carezze meccaniche, senza passione, persino senza conforto. La Collins aveva gli occhi lucidi, ma non piangeva. La Halliday era tetra, stordita. In condizioni normali, era di gran lunga la piu carina delle due, ma tutto il fuoco in lei si era spento, e aveva lasciato un guscio ben fatto ma opaco.

Mi ero abituato alle femmine omosessuali, nei mesi passati da quando avevamo lasciato la Terra. Avevo persino smesso di risentirmi per la perdita di compagne potenziali. Pero gli uomini che si mettevano insieme mi davano ancora i brividi.

Mi spogliai ed entrai a ritroso nello scafandro, aperto davanti a me come un’ostrica. Quelli nuovi erano maledettamente piu complicati, con tutti quei nuovi sistemi biometrici e servizi antitrauma. Ma valeva la pena di averli addosso, nel caso il nemico ti dovesse spaccare un pochino. Te ne tornavi a casa con una buona pensione e la protesi dell’eroe. Stavano parlando addirittura della possibilita di rigenerare le braccia e le gambe perdute. Sarebbe stato opportuno che si sbrigassero presto, prima che il pianeta Paradiso si riempisse di gente ridotta ai minimi termini. Paradiso era il nuovo pianeta ospedale, centro di riposo e di ricreazione.

Finii la sequenza di assestamento e lo scafandro si chiuse da se. Digrignai i denti per prepararmi al dolore che non veniva mai, quando i sensori interni e i tubicini interni dei fluidi entravano nel corpo. Grazie a dei bypass neurali condizionati, ci si sentiva solo lievemente frastornati. Meglio quello che la sofferenza di mille piccole ferite.

Intanto la Collins e la Halliday si stavano infilando negli scafandri, e gli altri erano gia quasi a posto: andai nell’area di vestizione del Terzo plotone, per salutare di nuovo Marygay.

Ella aveva gia lo scafandro addosso, e veniva verso di me. Accostammo gli elmi, invece di servirci della radio. C’era piu intimita.

— Come va, tesoro?

— Tutto bene — disse lei. — Ho preso la pillola.

— Gia, questi sono tempi felici. — Anch’io avevo preso la mia: doveva rendere ottimisti senza interferire con la capacita di giudizio. Sapevo che molti di noi probabilmente ci avrebbero lasciato la vita, ma non ne ero molto rattristato. — Dormi con me, stanotte?

— Se saremo ancora qui tutti e due — disse lei, in tono neutro. — Dovro prendere una pillola anche per quello. — Cerco di ridere. Per dormire, voglio dire. I nuovi come vanno? Ne hai dieci, vero?

— Dieci, sicuro. Vanno bene. Drogati, a un quarto di dose.

— L’ho fatto anch’io, per cercare di tenerli un po’ su.

In effetti, Santesteban era l’unico reduce di guerra del mio plotone, a parte me. I quattro caporali erano nella FENU da un po’, ma non avevano mai combattuto.

L’altoparlante che avevo nello zigomo crepito e il comandante Cortez disse: — Due minuti. Mettete in fila i vostri uomini.

Ci dicemmo addio e io tornai a sorvegliare il mio gregge. A quanto pareva, tutti si erano infilati gli scafandri senza difficolta, percio li misi in fila. Aspettammo parecchio.

— Bene, caricateli. — Alla parola 'caricateli' il portellone davanti a me si apri (intanto la zona vestizione era gia stata svuotata dell’aria) e io guidai i miei, uomini e donne, dentro l’astronave d’assalto.

Quelle astronavi nuove erano brutte come il peccato. Un’intelaiatura aperta, con delle morse per tenerti a posto, laser girevoli a poppa e a prua, e piccole centrali a tachioni sotto i laser. Tutto automatizzato. La macchina ci avrebbe deposti a terra al piu presto possibile e poi sarebbe schizzata via per andare ad assalire il nemico. Era un apparecchio automatico, da usare una volta e poi buttare via. Il veicolo che sarebbe venuto a raccoglierci, se fossimo sopravvissuti, era li vicino, ed era molto piu bello.

Ci fissammo con i morsetti e l’astronave d’assalto si lancio dalla Sangre y Victoria con due guizzi gemelli dei reattori. Poi la voce della macchina comincio un breve conto alla rovescia, e noi scendemmo con un’accelerazione di quattro gravita.

Il pianeta, cui nessuno si era preso la briga di dare un nome, era un pezzo di roccia nera, senza una stella normale abbastanza vicina per dargli un po’ di colore. All’inizio fu visibile solo perche la sua massa nascondeva la luce delle stelle che gli stavano dietro, ma via via che ci avvicinavamo potemmo scorgere sottili variazioni nell’oscurita della sua superficie. Stavamo per scendere sull’emisfero opposto a quello su cui si trovava l’avamposto taurano.

La nostra ricognizione aveva scoperto che il loro campo era al centro di una piatta piana lavica, del diametro di parecchie centinaia di chilometri. Era molto primitivo in confronto alle altre basi taurane che la FENU aveva incontrato, ma non sarebbe stato possibile arrivargli addosso di sorpresa. Dovevamo piombare sull’orizzonte a una quindicina di chilometri, con quattro astronavi che convergevano simultaneamente da direzioni diverse, decelerando pazzamente, con la speranza di cadergli giusto sulle ginocchia e di cominciare a sparare. Non c’era niente, li, per nascondersi.

Non ero preoccupato, naturalmente. In modo del tutto astratto, ero solo un po’ pentito di avere preso la pillola.

Ci mettemmo sull’orizzontale a circa un chilometro dalla superficie e avanzammo molto piu rapidamente della velocita di fuga di quel pianeta, correggendo continuamente la rotta per non volare via. La superficie rotolava sotto di noi in una confusione grigioscura; diffondevamo un po’ di luce: il chiarore pseudo-cerenkov prodotto dal nostro ugello a tachioni, che guizzavano fuori dalla nostra realta per passare in una realta tutta loro.

Lo sgraziato trabiccolo saetto e sobbalzo avanzando per una decina di minuti; poi all’improvviso si accese il reattore anteriore e subimmo un forte strattone, dentro i nostri scafandri: ci parve che i globi oculari cercassero di schizzare fuori delle orbite, a causa della rapida decelerazione.

— Prepararsi all’eiezione — disse la meccanica voce femminile della macchina. — Cinque, quattro…

I laser dell’astronave cominciarono a sparare, lampi di un millisecondo che congelavano il terreno sottostante in un sussultante moto stroboscopico. Era un caos sconvolto e butterato di crepacci e di rocce nere

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