umane.

All’improvviso, con una grazia e una tranquillita inquietanti, una delle danzatrici si getto volteggiando tra le fiamme. Sul raso delle sue vesti e sui suoi lunghi capelli serici sbocciarono immediatamente le fiamme e il corpo comincio ad ardere. La danza continuo. Non era la danza spasmodica e rivoltante dell’agonia, ma una fluida espressione di vita.

Solo quando le fiamme la consumarono, la danzatrice cadde a terra per abbracciare piu intimamente il fuoco e solo allora sembro spirare. La sua morte non impressiono le altre danzatrici, ne il coro di sacerdoti ne i fedeli dallo sguardo vitreo.

A turno ognuna delle danzatrici si getto piroettando tra le fiamme, conservando la vita per istanti infiniti per poi cadere silenziosamente, ridotta a scheletro bruciato.

Poi comparve la dea. Incarnatasi della sostanza del loro sacrificio, dell’odore della brace e del miasma del loro trapasso, emerse dalle fiamme. Non si trattava di un semplice agglomerarsi di fumo, ne di un’immagine tra le fiamme guizzanti. La sua era una presenza reale quanto le sette pareti della sala, reale quanto la gente che l’adorava. La dea era comparsa nel momento in cui i tre riflessi della sua bellezza si erano uniti nel fuoco.

Si contorse lentamente in una grottesca parodia della danza dei suoi surrogati, intrecciandosi alle fiamme e ai vortici di fumo. Era gigantesca. Per quando racchiusa nell’alone di fiamme, con la sua magnificenza e la sua forza riempiva il grande salone. Era bellissima. Nessuna donna era stata mai raffigurata a sua immagine: la razza dell’Uomo era semplicemente altra sostanza su cui lei posava il tallone, l’argilla sotto i suoi piedi. Era viva ed emanava un’energia incredibile e vibrante che colmava i suoi devoti sviando i loro pensieri piu ardenti e materiali per incanalarli verso una ricerca interiore.

Si volto e i capelli lucenti le fluttuarono sulle spalle. Per un istante i suoi pallidi occhi marmorei incontrarono quelli di Joaz, che si sporgeva dall’alto della balconata togliendo la visuale a me e a John. Forse sul suo bel viso si addolci quell’aria di comando, forse per un secondo vi comparve un’emozione aliena. In quel momento gli occhi di Joaz divennero fissi come diamanti e i tratti del suo viso furono identici a quelli delle centinaia di facce sotto di lui. La sua coscienza e la sua sensibilita parevano scivolare via a poco a poco e Joaz divenne uno di loro, uno dei devoti, dei pagani, degli idolatri…

Poi fu giorno e Joaz ritorno in se. Intorno a noi vi era una palude coperta di pellicola argentea costellata da isolotti con pini contorti ed erba secca. A sudest splendeva un pallido sole invernale.

— Matthew — disse Joaz in un sussurro roco, pressante. John, dietro a lui, si teneva tra le mani la testa, come ubriaco.

— Si.

— Siamo alla deriva. Alla deriva nel caos. Non e il futuro. Non lo e. Non c’e piu alcun futuro. Il tempo si e fermato del tutto e la nostra percezione non e piu affidabile. Trova l’Uomo Futuro, Matthew. Trovalo e dal caos scaturira di nuovo l’ordine. Ma devi trovarlo.

— Lo troveremo, Joaz — promisi. — Lo troveremo.

Prima di morire, Joaz guardo John un’ultima volta. — Bada a lui, Matthew — disse.

— Lo faro — promisi ancora.

20. Cantore di sogni

C’e musica nella mia anima e poesia nel mio cuore…

Il sole, simile a una lanterna, pendeva stancamente nel cielo lilla e scivolava a poco a poco verso ovest. La musica aleggio nell’aria umida. Madido in viso, risalii la collina. John era appena dietro a me.

Ma la musica e una parodia, la poesia una falsa riflessione…

Le note sembravano giungere da molto lontano anche se chi cantava non era distante. L’emozione che risvegliavano nella mia mente mi era sconosciuta, ma in un certo qual modo la identificai come nostalgia.

Nessun uomo che le conosca si vanta della propria arte…

Di certo nessuno dei miei ricordi poteva infondere un sentimento di nostalgia in quelle misteriose note. La loro bellezza e la loro particolarita le rendevano differenti da qualsiasi altra musica avessi mai sentito trarre da un’arpa.

Poiche in nessun modo egli puo onestamente divenire artefice del proprio amore…

Ora riuscivo a vedere colui che cantava: una figura piccola, ingobbita, in una lunga veste bianca che gli ricadeva sulle spalle e proiettava ombre sull’arpa. L’uomo era a testa china e la scosse con forza appena stacco la vecchia mano dalle corde ancora vibranti. Era difficile immaginare che la sua voce avesse pronunciato quelle parole ammaliatrici o che le sue mani grinzose avessero accarezzato le corde in modo cosi sapiente. Eppure le note dell’arpa erano risuonate, le labbra dell’uomo si erano mosse.

Il vecchio mi vide. I suoi occhi erano infossati, quasi invisibili nel cranio, e messi in ombra da folte sopracciglia. Mentre mi avvicinavo, seguito da John, schiuse le labbra screpolate in una parodia di sorriso. — Cercate me?

— No, non in particolare — risposi.

Il vecchio annui e resto a testa bassa, — Sono il cantore di sogni — disse con voce lenta e ovattata.

— Mi chiamo Matthew. Lui e mio fratello John.

— Perche siete venuti? — domando il vecchio. La sua voce era aspra, per nulla somigliante a quella che avevo udito salendo la collina. Eppure era la stessa persona.

— Veniamo da molto lontano — dissi — in cerca di un essere di cui non conosciamo le fattezze.

— Allora come lo potrete riconoscere, quando lo troverete?

— Non lo so — confessai.

— Quando lo troveremo, lo sapremo — disse John. Parlo con la certezza che gli derivava dalla fede, ma io non ero altrettanto fiducioso.

— La gente venne per vedermi — disse il vecchio. — Per vedere uno strano uomo che ha vissuto per molte generazioni, che ha visto troppo e che canta con voci che non gli appartengono. Venne per osservare o per ascoltare.

Rimasi in silenzio.

— Ci sono sempre delle storie — disse il cantore di sogni. — Credete alle storie?

— Quali storie? — domandai.

— Sono un uomo anziano — continuo lui, senza badare alla mia domanda — e sogno. Me ne sto seduto con la mia arpa e ho delle visioni. Da dove vengano i sogni, non so. Come potrei saperlo? Li vedo come se fossero miei, ma essi non mi appartengono. Vengono dal passato e da lontano. Non sono miei… mi echeggiano solo nella mente. Non so dire perche.

“Quante cose ho visto! Molte non le ho potute capire, e molte non le ho volute capire. Ho vissuto per molti secoli e ho sognato, ma non posso capire.

“Un tempo quel sole…” Alzo la mano e indico il sole cremisi. “Ricordo quando il sole…”

Lascio cadere la mano senza terminare la frase. Ero un po’ spaventato. Anch’io ricordavo il tempo in cui il sole era di un giallo accecante, non rosso smorto come ora.

— Cosa sogni? — chiese piano John.

— Vi cantero un sogno — disse lui. — Quale sogno? Ditemi, qual e la cosa al mondo che temete di piu?

— La solitudine — risposi; la risposta mi usci cosi velocemente dalla bocca che nemmeno io ero sicuro che fosse la verita.

— Molto bene — disse sommessamente. — Vi cantero un sogno di solitudine. Di chi sia il sogno, non ve lo so dire.

Le dita nodose pizzicarono le corde dell’arpa. Il vecchio apri la bocca e canto. Non era la voce con cui aveva cantato prima, ne la sua viva voce. Era una voce nuova, lamentosa, con forti accenti disperati.

Non c’erano parole nella canzone, ma la musica catturo la mia mente e fece sorgere in me delle immagini. Non saprei dire se sia stata l’arpa o la voce a incantarmi cosi. Forse le due cose insieme.

Nuvole temporalesche si ammassavano minacciose sopra un mare plumbeo solcato da un’unica nave.

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