nostro battello, non credete? Guardatelo, Abner! Cosa pensate?»

Per la verita Abner Marsh non sapeva esattamente cosa pensare; normalmente un battelliere non se n’andava in giro a recitar poesie, ed egli non sapeva cosa dire ad uno che lo faceva. «Molto interessante, Joshua,» fu tutto cio che riusci a racimolare.

«Che nome gli daremo?» chiese York, gli occhi ancora fissi sul battello e la bocca atteggiata ad un lieve sorriso. «La poesia vi suggerisce qualcosa?»

Marsh si rabbuio. «Di certo non gli daremo il nome di un britannico zoppo, se e questo che avete in mente,» disse in tono sgarbato.

«No,» fece York. «Non vi stavo suggerendo questo. Avevo in mente qualcosa come Dark Lady, o…»

«Veramente io avevo gia una mia idea in proposito,» disse Marsh. «D’altra parte, siamo la Fevre River Packet e questo battello e l’avverarsi di tutto cio che ho sempre sognato.» Sollevo il bastone di noce americano e lo punto verso la grande ruota. «Lo scriveremo proprio lassu, a grandi lettere blu e d’argento, davvero splendido. Fevre Dream.» Sorrise. «Il Fevre Dream contro l’Eclipse, si parlera di quella sfida finche non saremo morti tutti quanti.»

Per un attimo, qualcosa di strano e inquietante balugino negli occhi grigi di Joshua York. Poi fu subito svanito, repentinamente cosi com’era apparso. «Fevre Dream,» disse. «Non giudicate la scelta un po’… come dire… sinistra? Personalmente mi suggerisce malattie, febbre, morte, e visioni contorte. Sogni che… sogni che non andrebbero fatti, Abner.»

Marsh si acciglio. «A me non dice nulla di tutto questo. Mi piace.»

«La gente viaggera su di un battello con un nome simile? E risaputo che talora i battelli sono stati portatori di tifo e febbre gialla. Ci conviene rammentare alla gente cose come queste?»

«Sul mio Sweet Fevre ci viaggiavano,» ribatte Marsh. «Cosi pure sul War Eagle e sul Ghost, e tutti e due nomi appartenevano a Indiani Pellerossa. Viaggeranno anche sul nostro.»

Allora l’uomo scarno ed emaciato di nome Simon disse qualcosa, e parlo con una voce che stridette come una sega arrugginita in una lingua ignota a Marsh, ma che non era lo stesso idioma con cui Smith e Brown cicalavano l’un l’altro. York stette ad ascoltarlo ed il suo viso assunse un’espressione meditabonda, seppur ancora turbata. «Fevre Dream,» ripete. «Avevo sperato in un nome piu sano, ma Simon mi ha convinto della bonta della scelta. Seguite il vostro desiderio, Abner. Chiamatelo Fevre Dream.»

«Bene,» disse Marsh.

York annui con aria assente. «Incontriamoci domani a cena al Galt House. Alle otto. Discuteremo del nostro viaggio a St. Louis, dell’equipaggio e degli approvvigionamenti, se siete d’accordo.»

Marsh espresse un burbero assenso. York e compagni si allontanarono verso la loro imbarcazione e disparvero tra le nebbie. A lungo ancora, dopo che se ne furono andati, Marsh rimase nel cantiere a fissare il battello immoto e silenzioso. «Fevre Dream,» disse a gran voce, per saggiare sulla lingua il gusto di quelle parole. Ma stranamente, per la prima volta, il nome suono male alle sue orecchie: gravido di connotazioni che egli non gradiva. Rabbrividi, inspiegabilmente infreddolito per un solo istante, poi sbuffo e se ne ando a dormire.

CAPITOLO QUARTO

A bordo del Fevre Dream FIUME OHIO Luglio 1857

Era gia buio quando il Fevre Dream lascio New Albany in una notte afosa dei primi di luglio. In tutti i lunghi anni che aveva trascorso sul fiume, Abner Marsh non si era mai sentito cosi vivo come quel giorno. Passo la mattinata a sbrigare le ultime incombenze, i particolari dell’ultimo momento, a Louisville e New Albany; assumere un barbiere, pranzare con gli uomini del cantiere, spedire un mazzo di lettere. Nella calura pomeridiana, si sistemo nella sua cabina, compi un ultimo giro di controllo del battello per assicurarsi che fosse tutto in ordine e saluto alcuni passeggeri di prima classe man mano che salivano a bordo. La cena fu consumata in fretta e furia, e subito via, sul ponte di manovra per sovrintendere al controllo delle caldaie che macchinisti e manovali stavano effettuando laboriosamente, e per controllare l’operato del comandante in seconda che a sua volta stava sorvegliando l’imbarco dell’ultimo carico di merci. Il sole dardeggiava impietosamente l’aria stagnante, afosa ed immobile, imperlando di sudore scintillante la pelle degli scaricatori mentre trasportavano casse, balle e barili sulle strette passerelle d’imbarco, accompagnati dall’incessante turpiloquio del secondo. Dall’altra sponda del fiume, in prossimita di Louisville, Marsh sapeva che altri battelli si accingevano alla partenza o stavano anch’essi ultimando le operazioni d’imbarco: il grande battello a bassa pressione Jacob Strader della Cincinnati Mail Line, il veloce Southerner della Cincinnati Louisville Packet Company e una mezza dozzina di battelli minori. Il Capitano Marsh teneva d’occhio la situazione per vedere se uno di essi prendesse il fiume, e si sentiva terribilmente in forma a dispetto dell’afa e degli sciami di zanzare che si erano levati dalle acque al calar del sole.

Il ponte di manovra era ingombro di merci, sia verso poppa che verso prua, ed il carico occupava quasi completamente lo spazio lasciato libero dalle caldaie, dai forni e dai motori. Il Fevre Dream si preparava a trasportare centocinquanta tonnellate di foglie di tabacco in balle, trenta tonnellate di ferro, innumerevoli barili di zucchero, farina e brandy, casse di mobili di lusso per un riccone di St. Louis, un paio di blocchi di sale, alcune pezze di seta e cotone, trenta barili di chiodi, diciotto casse di fucili, libri, carte e vari altri generi. E lardo. Una dozzina di grosse botti colme di lardo di primissima scelta. Ma, per la verita, il lardo non faceva propriamente parte del carico; era un acquisto personale di Marsh, ed egli aveva ordinato che fosse stivato a bordo.

Il ponte di coperta era anche gremito di passeggeri, uomini, donne e bambini, fitti come le zanzare del fiume, che sciamavano e si aggiravano in mezzo al carico. Quasi trecento persone si accalcavano a bordo, ed ognuna di esse aveva pagato un dollaro come prezzo del viaggio fino a St. Louis. La traversata era tutto cio a cui avevano diritto; mangiavano il cibo che portavano a bordo con se, ed i piu fortunati trovavano un cantuccio per dormire sul ponte. Si trattava in massima parte di forestieri, irlandesi, svedesi ed olandesi grandi e grossi, tutti quanti a sbraitare l’uno all’altro in lingue che Marsh non comprendeva, a bere, bestemmiare e dar legnate ai propri figli. Laggiu vi si trovavano pure cacciatori di pelli e lavoranti comuni, troppo poveri per permettersi qualcosa di meglio del passaggio sul ponte alle tariffe di Marsh.

I passeggeri delle cabine aveva pagato dieci dollari tondi tondi, o almeno tanto era costato il biglietto a coloro che compivano l’intero tragitto fino a St. Louis. Quasi tutte le cabine erano state occupate, nonostante l’esosita del prezzo. Il commissario disse a Marsh che avevano a bordo centosettantasette passeggeri di prima classe, ed il numero parve a Marsh di buon auspicio, vista la presenza di tutti quei sette. L’elenco degli imbarcati comprendeva una dozzina di piantatori, il capo di una grande ditta di St. Louis specializzata nella vendita e lavorazione di pellicce, due banchieri, un ricco inglese con le sue tre figlie e quattro suore dirette nell’Iowa. C’era anche un pastore a bordo, ma cio non costituiva alcun problema visto che non trasportavano giumente grigie; tra la gente del fiume tutti sapevano bene che avere a bordo un pastore ed una cavalla grigia era un invito al disastro.

Quanto all’equipaggio, Marsh ne era pienamente soddisfatto. I due piloti, behr quelli non erano niente di speciale, ma erano stati assunti solo temporaneamente per portare il battello fino a St. Louis. Essi lavoravano sul Fiume Ohio e il Fevre Dream era destinato al traffico di New Orleans. Il Capitano aveva gia spedito delle lettere a St. Louis ed a New Orleans, sicche una coppia di valenti piloti del basso Mississippi attendeva l’arrivo del Fevre Dream giu al Planters’ House. Il resto della ciurma, invece, era di ottimo livello e di questo Marsh ne era sicuro. Il primo macchinista era Whitey Blake, un ometto focoso le cui imponenti basette bianche erano sempre insozzate da qualche macchia di grasso dei motori. Whitey era stato con Abner Marsh sull’Ely Reynolds e successivamente sull’Elizabeth A. e sul Sweet Fevre, e non esisteva un altro macchinista che conoscesse un motore a vapore meglio di lui.

Jonathan Jeffers, il commissario di bordo, portava gli occhiali con la montatura in oro e i capelli castani impomatati e pettinati all’indietro. Portava anche eleganti ghette con i bottoni. Pero, nel far calcoli e far quadrar le cifre era un vero terrore, non dimenticava mai nulla, non faceva mai un cattivo affare e non perdeva mai agli scacchi. Jeffers aveva lavorato nell’ufficio amministrativo della linea di navigazione di Marsh finche il Capitano non lo aveva chiamato sul Fevre Dream. Non se l’era fatto chiedere due volte. Oltre la facciata, dietro quella parvenza

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