avanti, affiancata da due di quegli irregolari, fino allo sportello della nostra carrozza aperta.

La nostra luogotenente (anche se devo ammettere che ancora non sapevamo che lo fosse) e di corporatura media, ma i suoi movimenti comunicano un’idea di grazia. La sua faccia ordinaria e scura, quasi bruna di colorito, e gli occhi grigi sono ombreggiati da sopracciglia nere. Il suo abbigliamento e composto di molte uniformi diverse: gli stivali logori e macchiati provengono da un esercito, la sua tenuta di fatica da un altro, la giacca lurida e bucata da un altro ancora, e il berretto stazzonato, su cui spiccano un paio d’ali, sembrerebbe dell’aeronautica, ma il fucile (lungo e nero, con i caricatori a forma di mezzaluna disposti con cura uno accanto all’altro) e lucido e pulitissimo. Ti sorride e si tocca appena il berretto con due dita, poi si rivolge a me. Il fucile e comodamente appoggiato al suo fianco, con la canna che minaccia il cielo.

«E lei, signore?» domanda. La sua voce ha una ruvidezza che trovo perversamente piacevole, anche se mi si accappona la pelle per la minaccia sepolta nelle sue parole, una promessa di pericolo. Aveva sospettato, aveva previsto qualcosa gia allora? La nostra carrozza ci distingueva dalla folla, come un gioiello montato su un anello da poco, che attirava il predatore nascosto in lei?

«Come, signora?» le chiedo, mentre qualcuno grida. Distolgo lo sguardo e vedo un capannello di soldati radunati attorno a qualcuno steso sul ciglio della strada, a pochi metri di distanza dal furgone in fiamme. La fila dei profughi oltrepassa anche questo gruppo tenendosi il piu possibile lontana.

«Ha qualcosa che potrebbe servirci?» chiede la donna in uniforme, ondeggiando con leggerezza sul predellino della carrozza e — dopo averti rivolto un altro sorriso — sporgendosi per sollevare un angolo della coperta da viaggio con la bocca del fucile.

«Non so», dico lentamente. «Cos’e che potrebbe servirvi?»

«Fucili», dice scrollando le spalle. Mi fissa e stringe gli occhi. «Qualcosa di prezioso», dice a te, poi usa la bocca del fucile per sbirciare sotto un’altra coperta dalla parte dove siedi tu, pallida, con gli occhi spalancati fissi su di lei. «Combustibile?» dice, guardandomi di nuovo.

«Combustibile?» ripeto. Mi passa per la testa di chiederle se intende carbone, o legna, ma non do voce a questo pensiero, intimidito dai suoi modi e dal fucile. Un altro grido singhiozzante proviene dalla piccola calca di uomini davanti al furgone.

«Carburante», riprende, «munizioni…» Si alza un nuovo grido dagli uomini stretti davanti a noi (tu sobbalzi di nuovo); la nostra luogotenente da un’occhiata nella direzione di quel gemito orribile, e una minuscola ruga si forma e le svanisce sulla fronte quasi nello stesso istante in cui dice «… medicinali?» Sul suo viso appare l’ombra di un calcolo.

Scrollo le spalle. «Abbiamo un po’ di materiale di pronto soccorso.» Accenno alle cavalle. «I cavalli mangiano biada. E tutto il combustibile che gli serve.»

«Mmm», fa lei.

«Lucius», dice qualcuno davanti a noi. Il nostro domestico mormora qualcosa in risposta. Due uomini lasciano il piccolo gruppo radunato sulla strada, uno degli irregolari e il fattore del villaggio, che mi indica. La nostra luogotenente scende dalla carrozza e gli va incontro, si ferma davanti a lui volgendoci la schiena, con la testa curva, a parlare con il fattore. A un certo punto lui ci rivolge un’occhiata, poi se ne va. La luogotenente torna, risale di nuovo, sollevando il berretto sui capelli di un colore smorto, pettinati all’indietro. «Signore», dice sorridendomi. «Lei ha un castello? Avrebbe dovuto dirmelo.»

«Avevo», gli rispondo. Non posso fare a meno di gettare un’occhiata nella direzione di casa. «L’abbiamo abbandonato.»

«E un titolo», continua.

«Di poco conto», le assicuro.

«Bene», esclama la luogotenente, abbracciando con lo sguardo i suoi uomini. «Come dovremmo chiamarla?»

«Per nome, andra benissimo. Mi chiami Abel.» Esito. «E lei, signora?»

Guarda sorridendo i suoi uomini, poi di nuovo me. «Mi puo chiamare luogotenente», mi dice. E a te: «Come si chiama?» Resti seduta, con lo sguardo fisso.

«Morgan», rispondo io.

Resta a guardarti per un momento, poi, lentamente, posa di nuovo gli occhi su di me. «Morgan», dice. Un altro grido dal gruppo accalcato sulla strada. La luogotenente corruga la fronte e guarda da quella parte. «Ferita al ventre», dice con calma, mentre due dita tamburellano sulla vernice lucida dello sportello della carrozza. Da un’occhiata ai due corpi che giacciono accanto al furgone in fiamme. Sospira. «Solo roba da pronto soccorso?» mi chiede. Faccio cenno di si. Accarezza la ricca imbottitura all’interno dello sportello, poi scende e raggiunge il gruppetto sulla strada. Il capannello si apre e i soldati le fanno strada.

Al centro del gruppo un giovane in uniforme e sdraiato sul fianco, con le mani strette attorno alla pancia. Trema, geme. La nostra luogotenente va da lui. Posa sulla strada il fucile, si accovaccia, accarezza la testa del ragazzo e gli parla sottovoce, tenendogli una mano sulla fronte, mentre l’altra cerca qualcosa sul fianco. La luogotenente fa segno a un paio d’altri di spostarsi — obbediscono subito — poi si curva e bacia il giovane soldato sulla bocca. Sembra un bacio profondo, prolungato, quasi appassionato; un filo di saliva, che brilla ai raggi del sole che filtrano fra gli alberi, li unisce ancora mentre lei alza lentamente la testa. Le sue labbra si sono appena staccate quando la pistola posata accanto alla tempia del ragazzo esplode un colpo. La testa del soldato ha un sobbalzo, come se fosse stata scalciata con forza, il corpo ha uno spasmo e poi si placa, e un po’ di sangue schizza in alto e poi sulla strada. (Sento la tua mano sulla mia spalla, che mi stringe la pelle attraverso gli strati di giacca, maglioni e camicie.) Il giovane soldato si distende e crolla sulla schiena, bocca aperta, occhi chiusi.

La luogotenente si alza di scatto, rimettendosi il fucile sulla spalla. Concede al soldato morto un ultimo sguardo, poi si volta verso uno di quelli che si erano accalcati attorno al ferito. «Mister Taglio, fa’ in modo che sia sepolto come si deve.» Rinfodera la pistola automatica ancora fumante e da un’altra occhiata ai corpi dei due civili stesi accanto al furgone in fiamme. «Quelli lasciateli ai cani.» Ritorna alla nostra carrozza, estrae un fazzoletto grigio da una tasca e si asciuga la faccia, togliendo qualche gocciolina di sangue del ragazzo. Salta di nuovo sul predellino, e punta i gomiti oltre lo sportello.

«Stavo chiedendo se avete armi», dice.

«Ho… ho un fucile da caccia e una carabina», le rispondo e mi trema la voce. Guardo la strada davanti a noi. «Potremmo averne bisogno per…»

«Dove sono?»

«Qui.» Mi alzo con lentezza e guardo la cassa sotto il sedile. La luogotenente accenna a un suo uomo che prima non avevo notato, dall’altra parte della carrozza. Il soldato si arrampica, apre la cassa, ci fruga dentro e solleva la borsa di tela cerata nella quale avevo stivato i fucili, la controlla e poi salta giu.

«La carabina non ha un calibro da guerra», protesto.

«Ah. Vorra dire che non potra sparare ai soldati», dice la luogotenente, scuotendo la testa senza malizia.

Guardo di nuovo nella direzione in cui stavamo andando. «La prego, non ho idea di quello che potremmo trovare piu avanti…»

«Oh, non credo che dovrete preoccuparvi di questo», dice lei, salendo piu in alto e scuotendo di nuovo la testa. Lo stesso soldato che aveva preso i fucili risale accanto a me. Comincia a perquisirmi, con precisione ma senza brutalita, mentre la luogotenente sogghigna verso di me e sorride a te, che guardi all’insu, stringendo le mani guantate che continuano a tremare. Il soldato ha un odore aspro, quasi fetido. Non trova niente degno di essere mostrato, a parte il pesante mazzo di chiavi che mi sono messo in tasca questa mattina. Le getta alla luogotenente, che le afferra con una mano sola, le solleva e le volta verso la luce.

«Che solenne mazzo di chiavi», dice, poi mi guarda con aria inquisitiva.

«Sono quelle del castello», le dico. Scrollo le spalle, con un leggero imbarazzo. «Per ricordo.»

Le rigira rumorosamente fra le mani, poi con un gesto teatrale le infila in una tasca della giacca strappata. «Sa, abbiamo bisogno di un posto dove rintanarci per un po’, Abel», mi dice. «Un po’ di riposo e ricreazione.» Sorride a te. «Quanto e lontano il castello?»

«E dall’alba che stiamo andando avanti.»

«Perche siete partiti? Un castello dovrebbe essere una protezione sufficiente, no?»

«E piccolo», le dico. «Non ha un’aria molto formidabile. Per niente formidabile. In verita e solo una casa; una volta aveva un ponte levatoio, ma adesso c’e un normale ponte di pietra sopra il fossato.»

Fa vedere che questa notizia l’ha impressionata. «Oh! Un fossato…» Suscita le

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