lanciarazzi. Sono schiacciato sul sedile posteriore tra il treppiede metallico della mitragliatrice e un soldato pallido e grasso che puzza come una volpe morta da una settimana. Dietro di noi, all’estremita del veicolo, e accosciato il soldato che regge la pesante mitragliatrice.

Prendiamo lo stretto sentiero che penetra nella foresta, sul retro della proprieta, alle spalle della piccola scarpata bordata da sempreverdi gocciolanti. In alcuni punti gli alberi e gli arbusti formano una specie di tunnel sopra il sentiero e il soldato che impugna la mitragliatrice impreca sottovoce abbassandosi di scatto mentre i rami si impigliano nell’arma e tentano di strapparla alla sua presa. Il sentiero si avvicina al torrente che alimenta il fossato. Il ponte e marcio, con le travi sghembe, troppo fragile per reggere il peso della jeep. La luogotenente si volta verso di me e uno sguardo deluso comincia a formarsi sul suo viso.

«Ormai siamo vicini», le dico, tenendo la voce bassa. Accenno con la testa. «Da quella cresta la vista e libera.»

La luogotenente segue il mio sguardo, poi dice al soldato con la mitragliatrice: «Karma, prendi il mitra. Andiamo».

Si direbbe che conti anche me. Abbandoniamo la jeep e noi cinque — io e la luogotenente, l’uomo con il lanciarazzi, il soldato pallido e grasso e quello che ha chiamato Karma, che si carica la mitragliatrice e vari cinturoni di munizioni, direi molto pesanti — attraversiamo il ponte e montiamo sul ripido argine all’altra estremita. Dall’alto, attraverso i cespugli, si vede il castello, insieme ai giardini piu vicini. La luogotenente estrae un binocolo da campo e lo punta sulla nostra casa.

Siamo sorpresi da un breve scroscio di pioggia; le gocce brillano negli ultimi raggi di sole che s’infilano sotto le nuvole provenienti da nord. Guardo la mia casa, avvolta da un sudario dorato di vento e pioggia, cercando di vederla come la vedrebbe un estraneo: una modesta fortificazione, nulla di imponente; levigata dal tempo, graziosamente circondata da un anello d’acqua e poi da prati, siepi, sentieri di ghiaia e costruzioni secondarie. Le antiche mura — in origine traforate solo da feritoie, da molto tempo ormai trasformate in finestre piu generose — hanno il colore del miele, in quella luce rosata. Ha un’aria pacifica; eppure, nonostante la sua finezza architettonica, e sempre qualcosa di troppo forte per questi tempi brutali e irrispettosi.

In mezzo a tale indiscriminata barbarie, tutto cio che spicca orgoglioso reclama di essere demolito, come un grido di sfida che non fa altro che attrarre ancor piu rapidamente le mani alla gola, quelle mani che strozzano il filo d’aria dal quale dipende la nostra vita. L’unico modo di tirare avanti, in questi tempi sfrenati, e cedere alla banalita e alla svalutazione; nell’uniformita, se non nelle uniformi, come quella schiera di sfollati della quale abbiamo provato a far parte. Talvolta l’inchino piu profondo e la protezione piu sicura.

Per il momento, tutto e tranquillo al castello; non si leva del fumo, non ci sono figure che pattugliano la merlatura, non sventola nessuna bandiera, non brilla nessuna luce, nulla si muove. C’e ancora qualche tenda sul prato; gente del villaggio che aveva subito le attenzioni di bande armate e aveva pensato che la vicinanza del castello potesse garantire una maggiore protezione. Solo da li proviene un po’ di fumo.

Credo che il castello non mi sia mai sembrato bello come adesso, nonostante una banda di pirati se ne sia impadronita e io sia obbligato ad aiutare un’altra banda, ancor piu decisa, a occuparlo.

Il terreno intorno e un’altra questione; anche prima dei danni inferti dai nostri eterogenei senzatetto — alberi tagliati per far legna, latrine scavate nei prati — i campi, i boschi e il parco erano incolti, abbandonati a se stessi. Abbiamo perso due anni fa il nostro fattore, e io — che mi ero occupato sempre alla lontana dell’amministrazione della tenuta — non sono riuscito a prendere il suo posto. Da allora, uno alla volta, tutti gli altri lavoranti sono stati portati via dalla guerra, in un modo o nell’altro, e la natura, non piu dominata, ha rinnovato la sua antica autorita sulle nostre terre.

«La, vicino alle stalle», sussurra la luogotenente, appena sopra il rumore delle gocce che picchiettano sulle foglie attorno a noi. «Quei due fuoristrada.»

«Sono nostri», le dico. Li abbiamo lasciati li, senza nemmeno chiudere a chiave le stalle, sapendo che ogni tentativo di proteggere qualcosa non avrebbe portato che a danni peggiori. «Pero le porte spalancate non le abbiamo lasciate noi.»

«Quella costruzione con le assicelle sui lati, dietro i garage», dice la luogotenente. «E la cabina del generatore?»

«Si.»

«C’e combustibile per alimentarlo?» Mi rivolge uno sguardo carico di speranza.

Solo sotto la carrozza. «Il serbatoio e a secco dal mese scorso», le dico, ed e quasi vero. Per risparmiare gli ultimi fusti di gasolio, abbiamo usato candele per l’illuminazione e il fuoco nei camini per scaldarci; anche le stufe delle cucine funzionano a legna. C’erano anche lampade e fornelli a propano, ma abbiamo consumato l’ultima ricarica ieri sera, prima di partire.

«Mmm», dice la nostra luogotenente, mentre il soldato accanto a lei la tocca con il gomito e indica qualcosa. Vediamo un uomo — un altro irregolare, per quello che vedo — che esce dalle stalle, mette un bidone sul cassone di uno dei fuoristrada e poi lo mette in moto, portandolo davanti al castello, lontano dalla nostra vista.

«C’e molto carburante in quelle macchine?» chiede la luogotenente sottovoce.

«Solo quello che non siamo riusciti ad aspirare», le rispondo.

«Si puo portare un veicolo all’interno del castello?»

«Non uno di quelli», le dico. «Sono troppo alti. C’e un piccolo cortile, dove puo manovrare solo qualcosa di non piu grande di una jeep.»

«Non c’e un ponte levatoio?» dice lei guardandomi. Scuoto la testa. Lei sorride appena. «Pero mi pare che abbia parlato di un cancello, vero, Abel?»

«E una cancellata leggera, e poi c’e una saracinesca di ferro battuto. Non credo che riuscirebbe a fermare…»

La radio della luogotenente squittisce. Lei leva una mano verso di me e risponde alla radio; ascolta e poi soffia attraverso il naso. «Si, se riuscite a farlo in un modo pulito. Noi siamo sulla cresta proprio dietro il castello.»

Mette via la trasmittente. «Dilettanti», dice con un sogghigno, e scuote la testa. «Non hanno messo nessuno alla portineria.» Si rivolge all’uomo accanto a se. «Psycho e tra gli alberi accanto al viale, laggiu», gli spiega. «Dice che sono solo in due a caricare la macchina. Non si vede niente di grosso. Sta per mettersi a sparare, poi uno dei camion e l’altra jeep arriveranno a tutta velocita dal viale. Copriteli.» Si rivolge a me. «Non sono soldati», dice con apparente disgusto, «sono solo sciacalli.» Scuote la testa, poi mette via il binocolo e prepara il fucile, lo fissa e punta. «Morte», dice al soldato con il lanciarazzi. «Non sparare. Almeno finche non te lo dico io, d’accordo?»

Il tizio sembra deluso.

Da dietro il castello vengono degli spari, dal punto in cui il viale lascia gli alberi e risale per il leggero pendio fino al grande prato. Per un istante non si vede niente, poi il fuoristrada riappare accelerando sul vialetto di ghiaia che conduce dall’entrata del castello alle stalle. L’auto sbanda sulla ghiaia, e lo sportello posteriore, aperto, ondeggia con violenza. Il parabrezza e tempestato di crepe bianche e qualcuno lo sta prendendo a pugni dall’interno. Il fucile della luogotenente abbaia all’improvviso, facendomi sobbalzare. La mitragliatrice che hanno trasportato dalla jeep apre il fuoco e io mi tappo le orecchie con le mani. Il fuoristrada trema mentre vola via qualche pezzo, poi sterza bruscamente, le ruote anteriori sembrano spiccare un salto e per poco non precipita nel fossato (per un istante i colpi della mitragliatrice sollevano minuscoli spruzzi nell’acqua); l’auto svolta dalla parte opposta e perde velocita; raddrizza per un attimo e si schianta contro il muro delle stalle.

«Stop!» grida la nostra luogotenente, e il fuoco s’interrompe.

Spirali di vapore si levano dal cofano deformato della macchina. Si apre la portiera del guidatore e qualcuno cade giu, striscia a quattro zampe sul terreno e poi crolla.

Si sente il rumore di un altro motore, altri spari sul davanti del castello, e poi sul viale d’ingresso appare uno dei camion della luogotenente, diretto all’entrata. Il fuoco s’interrompe; il camion scompare alla vista, coperto dal castello. Sentiamo il motore che s’imballa, e poi si ferma.

Ha smesso di piovere. Per qualche istante il silenzio e assoluto, e l’unico movimento e quello del vapore che esce dal motore del fuoristrada. Poi sentiamo delle grida, e altri spari. La luogotenente tira fuori la radio. «Mister T.?» dice. In risposta viene un crepitio.

«Ah, Doppel, cosa sta succedendo?»

La luogotenente ascolta. «D’accordo. Abbiamo preso il fuoristrada. E fuori combattimento. Scendiamo anche noi, dalla cresta dietro il castello. Tre minuti.» Mette via la radio. «Psycho ne ha preso uno sul ponte», ci spiega. «Ce ne sono altri due o tre dentro il castello, ma il camion e arrivato in tempo al cancello. E tutto sotto controllo.»

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