— Muovetevi, per favore — ordino al nostro gruppo, e stavolta il «per favore» significava «senza discutere».
— Ascolti una cosa, sergente — comincio il colonnello Martineau, ma lei ne aveva gia abbastanza delle sue proteste. Fece un cenno con la carabina. Il colonnello mi getto uno sguardo e scosse le spalle. Venimmo allineati l’uno dietro l’altro lungo una striscia gialla, dipinta sul pavimento cosi di recente che ci lasciai un’impronta. Di fronte al terribile buio del rettangolo ce n’era un’altra, orizzontale, simile allo «stop» della segnaletica stradale. Il capitano in attesa li davanti ci fece fermare, con un occhio su di noi e l’altro sul civile che m’era parso familiare.
— Quando vi daro il segnale — disse, — avanzerete dritti attraverso il portale, uno alla volta. Attendete finche non verrete chiamati: questo e importante. Sull’altro lato i vostri piedi si troveranno esattamente allo stesso livello di questo, percio non abbiate paura d’inciampare o di qualcos’altro. Comunque di la troverete il personale di servizio pronto ad aiutarvi, se sara il caso. Ricordate: uno alla volta…
— Capitano! — sbotto in un ultimo sforzo il colonnello Martineau. — Io esigo che…
— Lei non esige niente — lo rimbecco l’altro, ma senza rudezza, anzi esibendo un’espressione paziente. — Quando sara dall’altra parte ci sara qualcuno a prender atto delle sue lamentele, se avra lamentele da fare… signore. — Il tono di quel «signore» fu una via di mezzo fra l’ironico e l’indifferente, perche il capitano stava prestando assai piu interesse al civile presso il pannello di comando che a quello che avremmo potuto dirgli noi.
Anch’io osservavo il suo operato con attenzione. All’apparenza era intento a mettere in sincronia diversi strumenti difficili da regolare, soprattutto due lancette a scorrimento verticale, una verde e una rossa, che sembravano muoversi di vita propria per non combaciare. Quando la rossa correva troppo, girava una manopola per riportarla indietro. Ma non ci mise molto a stabilizzarle alla stessa altezza, e si volse a mezzo verso di noi. — Mandateli avanti!
E la dottoressa Edna Valeska, dopo essersi voltata a gettarci un’occhiata supplichevole, assunse l’aria di chi sta pregando con fervore e s’incammino verso la tenebra, dove semplicemente scomparve.
Io e gli altri sette sospirammo un’imprecazione all’unisono. — Il prossimo — ordino il capitano. Toccava al colonnello Martineau. Lo vidi inghiottire dal buio senza lasciarvi piu tracce di quante ve ne aveva lasciate Edna Valeska.
Io ero il successivo, nella fila. Mi fermai sulla linea, a un paio di metri dal misterioso tecnico civile, e solo allora, quando torno a voltarsi, potei vederlo pienamente in faccia.
Sussultai. Aveva un’aria piu efficiente, soprattutto molto piu tormentata, ma era indubbiamente lo stesso uomo. — Lavrenti! — lo chiamai, stupito. — Tu sei l’ambasciatore Lavrenti Djugashvili!
La sua guardia mi fulmino con lo sguardo. — E impazzito? Non distragga il dottor Douglas!
— Aspetta un maledetto momento — protesto il civile. — Lei! Cosa stava dicendo?
— Djugashvili — ripetei. — Tu sei l’ambasciatore dell’Unione Sovietica, Lavrenti Djugashvili.
Mi considero senza troppo interesse. — Io non mi chiamo Djugashvili — disse, tornando ai pannelli di controllo. Regolo un paio di quadranti e si volse ad annuire al capitano, che mi fece avanzare fino al portale. — Ma quello era il nome di mio nonno — mi grido dietro, proprio mentre penetravo nella parete di tenebra.
Quand’ero un ragazzo vivevo molte avventure con la fantasia, e queste riguardavano in particolare due campi. Uno erano i viaggi nello spazio. L’altro era il sesso. La ragione per cui avevo sognato di diventare uno scienziato (sogno che svani quand’ero al secondo anno, al Lane Tech) stava nella possibilita di partecipare alle imprese spaziali. Non avevo esattamente rinunciato a quella fantasia; era stato il trascorrere degli anni a farla pian piano evaporare.
L’altra cosa non era di quelle che svaniscono. Avevo la piu grossa collezione di libri porno del North Side. Quel genere di materiale non era ancora di libera vendita, ma c’erano posti in cui con due dollari potevate entrare e mettervi a sedere in una saletta fumosa, dove proiettavano filmetti in bianco e nero provenienti da Tijuana o dall’Avana (a quattordici anni non ero ancora sicuro che una donna potesse fare all’amore con un uomo senza indossare un paio di calze nere e una maschera). Vantavo avventurette inesistenti spacciando elaborate fandonie agli amici del club degli scacchi e della squadra di tennis, e pur avendo delle amiche la notte me ne andavo regolarmente a letto in bianco, com’e normale per ogni adolescente; ma con la fantasia costruivo in me lo scenario della perfetta seduzione: il neglige trasparente, la cenetta al lume di candela, le calze di rete…
E poi c’era stato quel Quattro Luglio. Peggy Hoffstader.
La casa dove abitava era abbastanza vicina al lago da poter vedere bene i fuochi artificiali, e quella sera sul tetto c’eravamo soltanto noi. M’ero dato da fare per ottenere due bottiglie di birra, che risultarono calde e di pessima qualita. E proprio quando i fuochi stavano esplodendo nel cielo per l’abbagliante finale, sentii una mano di Peggy poggiarsi in un posto dove fin’allora soltanto le mie s’erano posate, e seppi che adesso qualcuno stava chiamando il mio bluff. La fantasia era all’improvviso diventata realta. Quel debutto mi trovo decisamente impreparato, ma del resto voi come ve la sareste cavata con tutte quelle braccia e gambe e bottoni e fibbie?
Fu una fortuna che Peggy conoscesse meglio di me certi particolari della faccenda. Per cavarmela ebbi bisogno di tutto l’aiuto che mi fu possibile ottenere.
Ma li, adesso, non c’era nessuno ad aiutarmi.
Per quanto in modo diverso, stavo annaspando contro le stesse sconosciute, preoccupanti, sconvolgenti sensazioni. C’era un altro mondo sul lato opposto di quel sipario nero come la morte.
Trassi un profondo respiro, chiusi gli occhi, e ci camminai dentro.
A cosa potrei paragonare quella sensazione?
Forse non ci furono neppure sensazioni vere e proprie. M’era capitato un paio di volte di metter piede in quei laboratori sofisticati dove hanno porte fatte d’aria per separare i locali, correnti straliformi proiettate dal basso in alto, miste a vapor d’acqua che le fa sembrare tendine di nebbia. Erano cosi dense che potevano proiettarci sopra varie scritte e avvertimenti, attraverso i quali voi passavate con un fremito. Il transito oltre il portale che separava due universi non pretese dalla mia pelle neppure quel lieve brivido. Un momento prima ero nel seminterrato di un edificio, pieno di gente e di aria viziata, illuminato da impianti portatili di luci al neon…
Poi il piede che avevo spinto avanti tocco terra, e d’un tratto mi trovai sul fondo di uno scavo. Le mie scarpe poggiavano su un graticcio metallico, e in alto brillava l’infuocato sole di Agosto del New Mexico.
Intorno a me si levavano delle impalcature su cui erano piazzate apparecchiature dal curioso aspetto di grosse telecamere, che al posto delle lenti avevano antenne emisferiche da microonde. Dietro di esse c’erano tecnici che mi stavano osservando con indifferenza professionale. Tutto il perimetro era formato dalle pareti in pendenza dello scavo, con pagliolati che tenevano a posto la sabbia. Poco piu avanti era in sosta un camion col motore acceso: il primo rumore che mi aveva colpito gli orecchi.
Non ebbi piu di due secondi per studiare quella scena. Accanto a me c’erano due soldati, che mi presero per le braccia e mi spinsero avanti. — Sali sul camion — ordino uno di essi, e torno ad occuparsi del successivo prigioniero che vacillava fuori dal portale.
Mi arrampicai sul retro del veicolo, uno di quei massicci camion scoperti dell’esercito con le panche sui due lati, e ricevetti la regolamentare occhiata d’avvertimento da parte del soldato pigramente appoggiato alla cabina di guida, che puntava il mitra piu o meno verso di noi. Appena fummo a bordo tutti e nove il motore ruggi, il veicolo s’avvio su per una rampa e sbucammo sul terreno sabbioso dirigendoci verso una piccola altura dalla cima piatta. Su di essa erano in attesa due elicotteri militari, coi rotori in moto che gia giravano lentamente.
— Fuori — ordino la guardia. Uno alla volta saltammo al suolo. Lui ci segui, mentre l’autocarro si allontanava rombando. La guardia continuo a tenerci sottomira e sott’occhio, e camminando quasi all’indietro ando a scambiare qualche parola con il pilota di uno degli elicotteri. Noi ci guardammo l’un l’altro.
L’altura su cui ci trovavamo era spoglia e sabbiosa. Da li si poteva vedere, a un miglio di distanza, una serie di edifici tipici di una base militare piccola e isolata. La Sandia originale del nostro universo, mi dissi, doveva esser stata cosi. Sul bordo destro dell’altura su cui eravamo giunti c’era un lungo carrozzone privo della motrice, che dalle finestre supposi essere un ufficio, mentre presso lo scavo stavano altri grossi veicoli contenenti macchinari e generatori, dai quali grossi cavi scendevano fino alle apparecchiature sul fondo della fossa.
Stavo gia grondando di sudore. Anche gli altri sbuffavano, ma eravamo troppo tesi per preoccuparci della calura. Edna Valeska mi diede di gomito. — Hanno dovuto scavare per portarsi al livello del seminterrato — disse, accennando alla fossa.
— Cosa?