i rubinetti. E ci volle un bel po’ prima di chiuderli. Scendemmo nell’atrio, oltrepassammo un posto di controllo della polizia, un altro del Servizio Segreto, salimmo in ascensore in un’altra ala dell’albergo, e a questo punto stavo ancora singhiozzando.

Di sopra, premendomi sul naso uno dei cinque o sei kleenex che l’uomo del Servizio Segreto mi aveva fornito (che simpatico addestramento davano a quei giovanotti!) uscii e mi guardai attorno. Era un appartamento che faceva sembrare quello da cui m’avevano sfrattata una capanna di contadini cambogiani. Un duplex, con tappeti alti fino alla caviglia. Finestre stile cattedrale in un salone dal soffitto alto dieci metri. La prima persona che vidi fu Jackie Kennedy, che in piedi davanti a una finestra parlava con qualcuno, e la seconda persona che i miei occhi misero a fuoco fu quel qualcuno stesso.

Era Dom DeSota.

— Dom! — gemetti, e corsi verso di lui, sempre tirando su col naso.

Era Dom, sicuro, ma non mi guardo come mi avrebbe guardato Dom, e non disse quel che mi avrebbe detto Dom, e non sorrise come avrebbe sorriso Dom. Quando lo abbracciai odorava di tabacco da pipa e di un dopobarba che non gli avevo mai sentito sul viso, e soprattutto fece una cosa che Dom non avrebbe fatto mai.

Mi spinse via.

Oh, lo fece gentilmente, perfino benevolmente, ma mi spinse via lo stesso. Cosicche ero annichilila dalla sorpresa quando Jackie mi mise una mano su una spalla e disse: — Nyla, cara? Lui e quello sbagliato.

Be’, le cose tornarono al loro posto allorche mi girai, perche quello giusto si trovava li anche lui. Era a meta della scala semicircolare che portava al piano di sopra, all’appartamento della Presidentessa, ma appena mi vide venne giu di corsa e alla fine il mio abbraccio lo ebbi. Dapprima non disse niente. Si limito a tenermi stretta. Anch’io strinsi lui, ed ero cosi felice che se Marilyn e Ferdie fossero stati li, con un fotografo da una parte e un avvocato divorzista dall’altra, li avrei lasciati a godersi la scena senza minimamente guardarli. Poi lui rilasso un poco la sua stretta, mi guardo negli occhi, mi bacio e sospiro: — Oh, amore! — E getto uno sguardo cauto alle sue spalle.

Sul pianerottolo la segretaria per gli appuntamenti della Presidentessa stava tossicchiando con aria impaziente. — Vai pure, Dom, adesso — dissi dolcemente. — Quando tornerai io saro qui.

Cosi lui era sparito di nuovo, e Jackie stava cercando di spiegarmi quel che succedeva, e dall’altra parte Jock McClenty faceva la stessa cosa, e alla fine io riuscii a spiegare a loro che non m’interessavano tanto quei chiarimenti quanto la possibilita di rinfrescarmi un po’. E subito dopo mi fecero entrare in una stanza da letto che doveva esser stata disegnata per un califfo — specchi fin sul soffitto e, santo cielo, un Picasso autentico su una parete — oltre la quale c’era un bagno dove non mi meravigliai di trovare rubinetti d’oro.

Fu un bene che avessi avuto il modo di rimettermi a posto, perche quando uscii dalla stanza da bagno dello zar nella stanza da letto del califfo scoprii che questa era stata trasformata nel recinto di riunione per tutti noi.

Quando dico «tutti noi» non intendo affatto «tutti noi». Intendo piu «tutti» e piu «noi» di quel che abbia mai inteso dire in vita mia. Il mio Dom era tornato — la Presidentessa l’aveva rispedito fuori per confabulare privatamente con un paio di generali — e Dom ed io eravamo, naturalmente, i piu grossi «noi» della mia vita. Ma li c’erano tre lui. E se ci aggiungevo la faccia di quello che avevo visto soltanto alla TV avrei potuto contarne quattro.

E c’erano due me.

Avevo avuto una grande difficolta psicologica ad accettare il fatto che esisteva un altro Dom oltre il Dom che amavo, ma signori miei, non seppi che cos’era una difficolta psicologica finche non mi trovai faccia a faccia con un’altra me stessa. Mi fece ricordare la volta che, due o tre anni prima, Ferdie ed io eravamo andati a Winsconsin Dells per cercar di salvare il nostro matrimonio. Avevo lasciato il mio siamese, Panther, nell’appartamentino di Amy perche me lo tenesse lei, insieme alla sua gatta persiana Poo-Bear. Chi conosce i gatti sa cosa sia un’invasione di territorio: fu un incontro poco felice. La prima cosa che Poo-Bear fece fu di schizzare sopra uno scaffale colmo di chincaglieria, scaraventando al suolo meta degli animaletti di ceramica di Amy. E la prima cosa che fece Panther fu di schizzare sotto la libreria. Non soffiarono, ne si sfidarono con minacciosi miagolii. Si limitarono a guatarsi dai due capi opposti della stanza per tutto il tempo che io restai li… anche se poi Amy mi disse che mezz’ora piu tardi si stavano gia leccando a vicenda.

Fu molto simile a quel che accadde fra me e l’altra Nyla, benche fosse del tutto da escludersi la possibilita che ci leccassimo l’un l’altra. Lei sedeva in un angolo, fissando me e ogni tanto scambiando una parola con un individuo che le stava accanto, un tipo alto uno e novanta e largo come un armadio, dalla faccia poco raccomandabile. Io sedevo su un divanetto Queen Anne con la testa su una spalla di Dom, il mio Dom, e gli stringevo una mano, mentre lui provava a raccontarmi quali cose, quali stupefacenti cose, gli erano accadute dall’ultima volta che ci eravamo visti. E le due noi, cioe Nyla-io e Nyla-lei, continuavamo a fissarci a vicenda.

Sebbene la stessi studiando piu attentamente di quanto non avessi mai fatto con un’altra donna, non notai che era priva dei pollici finche fu Dom a sussurrarmelo. Questa non era l’unica differenza. L’espressione del suo volto era diversa da qualunque espressione io avessi mai visto sul mio allo specchio… cinica? Falsa? Forse perfino invidiosa? Comunque fosse, lei era me.

E io ero molto, molto grata al cielo per il modo in cui il braccio di Dom mi cingeva le spalle.

Con tutto quello che stava succedendo non c’e da meravigliarsi se non notai subito l’altra cosa strana. Che ci fossero tre Dom nella stessa stanza era abbastanza spiacevole; la presenza di una seconda Nyla era peggio. Ma noi non eravamo i soli doppioni. Quando infine potei distogliere lo sguardo dall’altra Nyla abbastanza da prestare attenzione agli ospiti, vidi che Kennedy stava parlando con due uomini identici al mio vecchio amico Lavrenti Djugashvili, e costoro guardavano me.

— Shto ete, Lavi? — domandai all’uno e all’altro, imparzialmente, attraverso la camera. Entrambi si mostrarono perplessi.

Dom rise e mi strinse piu forte contro la sua spalla. — Nessuno dei due e l’ambasciatore — disse. — In questo momento lui e all’aeroporto, ad accogliere certi scienziati russi che vengono a consultarsi con noi.

— Oh, Dio! — mi lamentai con una risatina, solo perche era meglio che piangere. — E quei due sono tutti?

— Non ce ne sono solo due — spiego, serio, — ma un numero infinito, temo. Di me e di te, pero, ci sono soltanto un me e una te che contano. Cerchiamo di vederla a questo modo.

Cosi d’un tratto mi parve che ci fossero altri due di «noi» nella stanza, benche questi ultimi due fossero solo immaginari. E riuscivo a vederli chiaramente entrambi: Marilyn da una parte e Ferdie dall’altra, e le loro facce erano piene di angoscia, di rabbia e di accuse.

Era una fortuna che fossero solo immagini, almeno in quel momento, anche se piu tardi sarebbero diventati fin troppo reali. Chiusi la mente a quei pensieri. — Se questa e una proposta — dissi, — la accetto. Non voglio che qualcosa ci separi ancora. A parte le mie tournee, dico.

— E a parte le mie campagne elettorali — sorrise lui. — Te lo prometto.

E stupefacente la facilita con cui potete fare una promessa che sapete quanto vi sara difficile mantenere.

Tuttavia Marilyn e Ferdie esistevano, e noi dovevamo loro un minimo di discrezione almeno fino al momento in cui saremmo giunti a una spiegazione con loro. Malgrado tutto — malgrado le cose strane che stavano accadendo e il fatto che, appena fuori da quelle finestre, la mia patria veniva invasa — riuscivo ancora a preoccuparmi del comune senso del pudore. Specialmente quando notai che John Kennedy ci sbirciava con la coda dell’occhio non senza un filo d’apprensione, mentre parlava coi doppioni di Lavi.

Arrossii e mi raddrizzai sul divano. Non sgusciai fuori dal braccio di Dom, ma mi spostai un tantino. Lui ebbe una riflessione di quel genere nello stesso momento. Lo sentii assumere una posa piu formale.

Subito dopo pero torno ad accostarsi a me, e il suo braccio mi cinse piu forte. Orgogliosamente. Quasi con sfida. Oh, all’inferno, pensai: avevamo oltrepassato i limiti concessi alla discrezione. Se la nostra relazione era mai stata un segreto, adesso quel segreto non c’era piu.

Il lusso di quell’appartamento non finiva coi rubinetti d’oro del bagno. C’era una cucina annessa, un cuoco dell’albergo, un aiuto-cuoco e una cameriera. — Mangiamo un boccone — disse Dom, il mio Dom. — E gia tutto pagato dai contribuenti. — Cosi cenammo, e scoprii d’avere un formidabile appetito. Lo stesso avrei detto dei

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