– Ho detto bugie e ho taciuto la verita. Son cose che finisco sempre col pagare. Non sono fortunato come certa gente.

– Ma io non mentisco, Philip. Non mentisco. Son fuori di me.

– Tirate un respiro profondo e uscite di voi in modo ch'io possa sentirvi.

– Possono ucciderlo – disse la ragazza, quietamente.

– E in questo frattempo che cosa fa, il dottor Vincent Lagardie?

– Lui non sa nulla, naturalmente. Vi prego, andateci subito. Ho qui l'indirizzo. Aspettate un secondo.

Dentro di me squillo un campanello. Quello che suona all'estremita piu lontana del corridoio, e che non suona forte, ma e bene sentire. Non importa quanti altri rumori vi siano intorno. E bene sentirlo.

– Sara sulla guida telefonica – dissi. – E per strana coincidenza io possiedo una guida telefonica di Bay City. Chiamatemi alle quattro. O alle cinque. Meglio alle cinque.

Deposi in fretta il ricevitore. Mi alzai e spensi la radio, senza aver sentito una sola parola di quel che aveva detto. Tornai a chiudere le finestre. Apersi il cassetto della scrivania, tirai fuori la mia Luger e indossai la fondina a tracolla. Mi misi il cappello e mentre mi dirigevo alla porta mi soffermai, per darmi un'occhiata allo specchio.

Avevo la faccia di uno che ha deciso di buttarsi a mare.

CAPITOLO XX

Stavano giusto terminando un funerale, alla Casa della Pace. Un grande carro funebre grigio aspettava alla porta di fianco. Vi erano varie automobili, allineate ai lati della strada, e tre grandi berline nere di fronte alla palazzina del dottor Vincent Lagardie. Un gruppo di persone compunte scendeva lungo il viale della cappella funeraria, e montava sulle automobili. Mi fermai a mezzo isolato di distanza e aspettai. Per ultime uscirono tre persone con una donna velatissima, tutta in nero, e la condussero, quasi portandola, a una grande limousine. L'impresario di pompe funebri fluttuava in giro, facendo tanti piccoli gesti, con le mani e col corpo, gesti graziosi, come un finale di Chopin. Il suo viso grigio e composto era cosi lungo che avrebbe potuto avvolgerselo un paio di volte attorno al collo.

I necrofori dilettanti portarono il feretro fuori dalla porta laterale e quelli professionisti li liberarono dal carico e lo fecero scivolare elegantemente nel carro funebre, come se non pesasse piu d'un piatto di frittelle. I fiori cominciarono ad ammonticchiarsi sopra la cassa. Le portiere di vetro si chiusero e i motori si avviarono, lungo tutto l'isolato.

Pochi minuti dopo non restava piu nulla, all'infuori di una berlina, all'altro capo della via e dell'impresario di pompe funebri che si era soffermato ad annusare un cespuglio di rose prima di rientrare a contare il malloppo.

Poi, con un sorriso radioso, svani oltre l'elegante porta in stile coloniale e il mondo fu di nuovo immobile e vuoto. La berlina rimasta non si era mossa.

Percorsi un tratto di strada, feci una svolta ad U e andai a fermarmi dietro la berlina. Il guidatore portava un abito blu e un berretto molle, con la visiera lucida. Stava facendo il gioco di parole incrociate del giornale del mattino. Inforcai un paio di occhiali da sole di specchio trasparente e gli passai accanto molto adagio, diretto alla casa del dottor Lagardie. L'autista non alzo gli occhi. Quando mi fui allontanato di alcuni metri mi tolsi gli occhiali e finsi di pulirli col fazzoletto. Captai la sua immagine in una delle lenti di specchio. Non aveva alzato gli occhi. Stava semplicemente facendo le parole incrociate. Infilai di nuovo gli occhiali e andai alla porta d'ingresso del dottor Lagardie.

Il cartello, sul battente diceva: 'Suonare ed Entrare'. Io suonai, ma la porta non mi lascio entrare. Aspettai. Suonai di nuovo. Aspettai di nuovo.

All'interno era tutto muto. Poi, molto lentamente, si aperse uno spiraglio nella porta e un viso magro e inespressivo, sopra un'uniforme bianca fece capolino e mi guardo.

– Mi spiace, il dottore oggi non riceve.

L'infermiera sbatte le palpebre, fissando i miei occhiali di specchio. Non le piacevano. Dietro le labbra la lingua si muoveva, ininterrottamente.

– Cerco il signor Quest. Orrin P. Quest.

– Chi? – Nei suoi occhi passo un rapido lampo di sorpresa.

– Quest. Q, come Quintessenziato, U come Ultraterreno, E come Extrasensorio, S come Subliminale, T come Trallalla. Mettete tutto insieme, e leggete Fratello.

L'infermiera mi guardo come se fossi emerso dal fondo dell'oceano, con una sirena annegata sotto il braccio.

– Vogliate scusare. Il dottor Lagardie non…

Una mano invisibile la tolse di mezzo, e un uomo alto, magro, dall'aria spiritata apparve nel vano dell'uscio semiaperto.

– Sono il dottor Lagardie. Che c'e, prego?

Gli porsi un biglietto da visita. Lui lo lesse. Poi mi guardo. Aveva la faccia bianca, tirata, di un uomo che aspetta la rovina.

– Ci siamo gia parlati al telefono – dissi. – A proposito di un certo Clausen.

– Prego, entrate – invito, frettolosamente. – Non ricordo, ma entrate.

Entrai. Il locale era buio. Gli scuri abbassati, le finestre chiuse. Era buio e freddo.

L'infermiera arretro e ando a sedersi dietro una piccola scrivania. Era una comune stanza di soggiorno, coi serramenti dipinti di bianco: serramenti che erano stati scuri, un tempo, a giudicare dall'eta della casa. Un arco quadrato divideva la stanza di soggiorno dalla sala da pranzo. Vi erano alcune poltrone e un tavolo centrale, cosparso di riviste. L'insieme aveva l'aria di quel che era; la sala d'aspetto di un medico che tiene l'ambulatorio in un'ex casa privata.

Il telefono squillo, sulla scrivania dell'infermiera. Lei allungo la mano, ma poi si fermo, e fisso l'apparecchio. Dopo un certo tempo gli squilli cessarono.

– Che nome avete detto, prima? – mi chiese il dottor Lagardie, a bassa voce.

– Orrin Quest. Sua sorella mi ha detto che lavora per voi, dottore. Sono giorni che lo cerco. Ieri sera lui le ha telefonato. Da qui, dice la signorina.

– In questa casa non c'e nessuno che si chiami cosi – annunzio educatamente il dottor Lagardie. – Non c'e mai stato.

– Non lo conoscete nemmeno?

– Non l'ho mai sentito nominare.

– Non capisco perche abbia detto una cosa simile a sua sorella.

L'infermiera si asciugo gli occhi furtivamente. Il telefono sulla sua scrivania gracchio e la fece di nuovo trasalire.

– Non rispondete – ordino il dottor Lagardie, senza voltarsi.

Aspettammo, mentre il telefono suonava. Tutti aspettano, quando un telefono suona. Dopo un po' smise.

– Perche non andate a casa, signorina Watson? Non avete niente da fare, qui.

– Grazie, dottore.

La ragazza rimase seduta, immobile, fissando il piano della scrivania.

Chiuse gli occhi, stringendoli forte, poi li riaperse, sbattendo le palpebre. E scosse il capo, con aria di sconforto.

Il dottor Lagardie torno a rivolgersi a me.

– Andiamo nel mio studio?

Passammo un'altra porta, che dava su un corridoio. Mi pareva di camminare sulle uova. L'atmosfera della casa era greve di presentimenti funesti.

Il dottore aperse una porta e mi fece passare in un locale che doveva essere stato una camera da letto, solo che ora non faceva piu pensare a una camera da letto. Era lo studio d'un medico. Piccolo. Raccolto. Da una porta aperta si scorgeva parte di un gabinetto di consultazione. In un angolo funzionava una sterilizzatrice. C'era un'enorme quantita di aghi a bollire.

– Una bella quantita di aghi – osservai, pronto come sempre.

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