Trassi la foto di sotto la cartella e andai a riporla nella cassaforte, insieme alle altre. Poi mi misi il cappello e chiusi le finestra. Non c'era nulla da aspettare. Guardai la punta verde della lancetta dei secondi, sul mio orologio. Mancava ancora molto, alle cinque. La lancetta percorreva il quadrante, senza sosta, come un commesso viaggiatore che va di casa in casa. Le sfere delle ore segnavano le quattro e dieci. Avrebbe gia dovuto chiamare, la ragazzina. Levai la giacca, mi sfilai la fondina a tracolla e la chiusi a chiave nel cassetto della scrivania, insieme alla Luger. I poliziotti non ci tengono che giriate armato nelle loro acque territoriali. Anche se avete il diritto di farlo. A loro piace che vi presentiate, tutto umile, come si conviene, col cappello in mano, la voce educata e sommessa e gli occhi pieni di nulla.

Guardai di nuovo l'orologio. Rimasi in ascolto. Il palazzo pareva molto tranquillo quel pomeriggio. Di li a poco sarebbe stato silenzioso del tutto e allora la madonna dallo strofinaccio grigio sarebbe arrivata lungo il corridoio, strascicando i piedi e tentando le maniglie.

Tornai a infilarmi la giacca, chiusi a chiave la porta di comunicazione, staccai il campanello e uscii nell'atrio. E proprio allora il telefono suono.

Per poco non strappai l'uscio dai cardini, per correre a rispondere. Era proprio la ragazzina, ma la sua voce aveva un tono che non avevo mai sentito prima. Un tono freddo, equilibrato, ma non opaco, ne vuoto, ne assente e nemmeno infantile. Era la voce di una ragazza che non conoscevo, e che pure conoscevo. Il significato di quella voce, lo seppi prima che avesse pronunciato tre parole.

– Vi ho chiamato perche m'avevate detto di farlo – esordi. – Ma non dovete dirmi nulla. Sono stata la.

Reggevo il ricevitore con tutt'e due le mani.

– Siete stata la – ripetei. – Si. Ho sentito. E poi?

– Mi… mi son fatta prestare una macchina. E mi sono fermata dall'altra parte della via. C'erano tante automobili che non avreste mai potuto notarmi. C'e un'impresa di pompe funebri, li accanto. Non vi stavo pedinando.

Ho cercato di seguirvi, quando siete uscito, ma non conosco le strade, da quelle parti, e vi ho perduto. Cosi sono tornata la.

– Perche?

– A dire il vero non lo so. Ma mi e parso che aveste un'aria strana, quando siete uscito da quella casa. O forse ho avuto un presentimento. In fondo si trattava di mio fratello. Cosi sono tornata la e ho suonato il campanello. E nessuno e venuto ad aprirmi. Anche questo mi e parso strano.

Forse sono telepatica, o qualcosa di simile. E a un tratto mi e parso di dover entrare in quella casa a tutti i costi. E non sapevo come farlo, ma dovevo, assolutamente.

– E successo anche a me – dissi, ed era la mia voce, ma qualcuno aveva usato la mia lingua come carta vetrata.

– Allora ho telefonato alla polizia e ho detto che avevo sentito degli spari – continuo lei. – E la polizia e arrivata e un agente e entrato in casa per una finestra. E poi ha fatto entrare l'altro per la porta. Dopo un po' hanno chiamato dentro anche me. E dopo non volevano piu lasciarmi andare.

Ho dovuto dire tutto, chi era lui, e che avevo mentito, a proposito degli spari, ma avevo avuto paura che fosse accaduto qualcosa di male a Orrin.

E ho dovuto parlare di voi, anche.

– Niente di male – la rassicurai. – Avevo gia intenzione di dir tutto alla polizia, non appena avessi avuto modo di comunicare con voi.

– E una situazione piuttosto imbarazzante per voi, vero?

– Si.

– Vi arresteranno o qualcosa di simile?

– Puo darsi.

– L'avete lasciato la, per terra. Morto. Ci siete stato costretto, immagino.

– Avevo le mie ragioni – affermai. – Forse non vi parranno molto buone, ma ne avevo. E per lui, la cosa non aveva importanza.

– Oh, certo. Avevate le vostre ragioni – disse. – Siete molto abile.

Voi avete sempre una ragione per tutto. Bene, immagino che le dovrete dire alla polizia, le vostre ragioni.

– Non necessariamente.

– Oh, si, dovrete – insiste la voce, con una nota di piacere che non seppi spiegarmi. – Certo che dovrete. Vi costringeranno.

– Inutile discutere – ribattei. – Nel mio mestiere si fa quel che si puo, per proteggere il cliente. A volte si va un tantino troppo in la. Come ho fatto io. Sono andato a mettermi in una posizione vulnerabile. Ma non l'ho fatto unicamente per voi.

– L'avete lasciato la, per terra, morto – ripete la ragazza. – E non me ne importa, di quel che vi faranno. Se vi metteranno in prigione credo che saro contenta. Scommetto che vi mostrerete superbamente coraggioso.

– Sicuro – affermai. – Sempre un allegro sorriso, nelle avversita.

Avete visto che cosa aveva in mano vostro fratello?

– Non aveva in mano niente.

– Be', vicino alla mano.

– Non c'era niente. Niente di niente. Che cosa doveva esserci?

– Magnifico – esclamai. – Mi fa molto piacere. Be', addio. Vado alla centrale, ora. Vogliono parlarmi. Buona fortuna, se non vi vedro piu.

– Vi conviene tenervela, la vostra buona fortuna – ribatte lei. – Puo darsi che ne abbiate bisogno. E in ogni caso io non la voglio.

– Ho fatto del mio meglio, per voi. Forse, se mi aveste detto qualcosa di piu in principio…

Lei interruppe la comunicazione mentre stavo parlando.

Deposi il ricevitore sulla forcella, gentilmente come se fosse stato un bambino in fasce. Trassi di tasca un fazzoletto e mi asciugai le palme delle mani. Poi andai al lavabo a lavarmi. Mi spruzzai il viso d'acqua fredda, l'asciugai strofinandolo duramente con la salvietta e mi guardai nello specchio.

– Ti sei proprio buttato a mare – dissi alla faccia che mi fissava.

CAPITOLO XXIII

Nel centro della stanza c'era un lungo tavolo giallo di quercia. Ai bordi aveva una serie irregolare di bruciature di sigaretta. Dietro di esso, con una quantita di scartofEe disordinate sotto il naso, stava il tenente Fred Beifus della squadra investigativa. Alle spalle del tenente una finestra, coi vetri retinati. A una estremita del tavolo, appoggiato all'indietro su una sedia a braccioli, in bilico sulle gambe posteriori c'era un uomo grande e grosso. Il suo viso aveva, per me, la familiarita di un'immagine che si e gia vista in bianco e nero, nei cliche dei giornali. Aveva una mascella che pareva la panchina d'un parco. Stringeva fra i denti l'estremita di una grossa matita di legno e aveva l'aria d'essere vivo e di respirare ma, a parte questo, si limitava a starsene seduto.

All'altra estremita del tavolo c'erano una finestra e due scrivanie dalla chiusura a saracinesca. Una delle due scrivanie era appoggiata contro la finestra. Accanto ad essa una donna coi capelli color arancio stava trascrivendo un rapporto a macchina su un tavolino. Dietro l'altra scrivania, che era posta perpendicolarmente, rispetto alla finestra, era seduto Christy French, su una sedia girevole coi piedi su un angolo dello scrittoio. Stava guardando fuori dalla finestra, che era aperta e offriva la meravigliosa visione del parcheggio della polizia e del retro d'un cartellone pubblicitario.

– Sedetevi li – invito Beifus, facendo segno col dito.

Mi sedetti all'altro capo della stanza su una sedia rigida, di quercia, senza braccioli. Non era una sedia nuova e da nuova non era stata bella.

– Questo e il tenente Moses Maglashan della polizia di Bay City – continuo Beifus. – E non vi vuole bene… proprio come noi…

Il tenente Moses Maglashan si tolse di bocca la matita e fisso i segni dei denti nella grossa asticciola ottagonale. Poi fisso me. Il suo sguardo mi sfioro lentamente, esplorandomi, osservandomi, catalogandomi. Non

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