e socchiuso. Vedo P. nuda che scavalca la sua biancheria sul pavimento e si dirige verso un lenzuolo scomposto per terra. Si inginocchia voltando le spalle a T.C. la cui veste sta gia rivelando i grotteschi segni di un'erezione. Dapprima T.C. lavora con la matita, ha un modo particolare di creare ogni linea come se disegnasse con tutto il suo corpo, linee che diventano un balletto di svolazzi, quasi in una danza trasferisse l'opera da se stesso alla carta. Lavora su tre fogli, poi chiede a P. di cambiare posizione. Si sposta dietro di lei e le raccoglie i capelli sulla nuca, fermandoli con un pennello, poi davanti e le fa raddrizzare le spalle in modo che la colonna vertebrale formi una linea curva. P. si accorge della sua eccitazione e, con un gesto d'istintiva intimita, gli rialza la veste e lo accarezza finche T.C. comincia a tremare. P. si abbassa su di lui e T.C. respira affannosamente, poi gli preme una mano sulle natiche e lo attira verso di se. Lentamente abbassa la testa come in una preghiera. Le mani dell'uomo tremano sulle sue spalle e gli sfugge il grido di un bambino svegliato all'improvviso durante la notte. Lei beve il suo seme. Me ne vado.
Torno in taxi al mio studio e per la prima volta da mesi prendo in mano il pennello. Porto vicino alla parete cinque tele vuote, preparo il colore nero, afferro la matita. Ho la mente d'acciaio. I pensieri sfrecciano lungo canne di fucile come proiettili e in pochi minuti abbozzo un disegno di un'oscenita assoluta, con P. tra satiri dai sessi di dimensioni spaventose. Dipingo con perverso vigore, ma con enorme chiarezza e precisione e quando stacco le tele dalla parete, per chi le guarda, non sono altro che cinque tele in bianco e nero. La mia vendetta prende forma soltanto con una determinata configurazione.
3 dicembre 1960, Tangeri
Non lavoro. Osservo soltanto. L'occhio non fa che posarsi sul groviglio di due esseri. Sono di ghiaccio, la mia mente ha la chiarezza di un grido lanciato in un campo immobile coperto di neve. Conosco ormai perfettamente le abitudini invernali di T.C. Si alza tardi, sempre dopo mezzogiorno, va a fare colazione e a bere il te in un piccolo caffe, poi fuma tre o quattro sigarette. Nel pomeriggio di rado torna nel suo studio, qualche volta va a casa dalla sua famiglia: ha una moglie e tre bambini, due maschi e una femmina tra i cinque e gli otto anni. Altre volte va sulla spiaggia. Gli piace il brutto tempo. Io lo osservo dal mio studio, in piedi nel vento, sotto la pioggia, le braccia spalancate come se volesse abbracciare le forze purificatrici degli elementi. Di notte lavora. L'ho spiato. E cosi assorto che non si accorge di nulla. Talvolta lavora nudo, anche se fa molto freddo. Ogni tanto si lascia letteralmente cadere sul pavimento, esausto. Ha completato un quarto nudo: P. inginocchiata. E fenomenale. Meravigliosa, misteriosa semplicita della forma, ma con la stessa qualita che contraddistingue i primi tre: la gioia e il pericolo del frutto proibito.
28 dicembre 1960, Tangeri
E una notte gelida, forse la piu fredda da quando sono a Tangeri, il vento soffia da nord-ovest portando il gelo dell'Atlantico. Percorro a piedi le vie della citta silenziosa. Nemmeno un cane randagio in giro. E una lunga camminata fino allo studio di T. C, e impiego piu di un'ora per arrivare. Non penso, ma scavalco subito il muro nel mio solito punto (ne ho trovato uno dove atterro su un sentiero, senza lasciare orme nella terra smossa). Vado nella camera da letto e dal rumore dei passi capisco che sta lavorando. Entro nella luce dello studio, caldo grazie alla stufa a legna in un angolo. T.C. continua a lavorare, voltandomi le spalle. Mi avvicino, vedo i muscoli tesi sotto l'abito, mi fermo vicinissimo a lui e ancora non si accorge di niente. Le pennellate sono spesse, carnose. Gli respiro sul collo e lui si immobilizza, solido come pietra. Non si volta. Non riesce a voltarsi.
«Sono io», dico.
Si gira. Gli occhi cercano i miei per tentare di ragionare, poi, vedendo che e inutile, per chiedere pieta. Non ho nessun bisogno, ne desiderio, di discutere e la mia mano e un lampo che gli taglia la gola con una forza cosi brutale che si ode una specie di schianto. Pennello e tavolozza gli sfuggono di mano, cade in ginocchio, lo sento tentare disperatamente di respirare attraverso la laringe sfracellata. Mi porto alle sue spalle e gli premo la mano sulla bocca e sul naso. Le forze lo hanno abbandonato completamente a causa della violenza del mio colpo. Solo quando la morte gli invade la mente l'istinto di conservazione restituisce energia al suo braccio, ma e di gran lunga troppo tardi. Lo immobilizzo e spengo l'ultima fiammella di vita. Lo depongo a faccia in giu sul pavimento, prendo i quattro nudi, li stacco dai loro telai, li arrotolo e li appoggio alla parete accanto alla porta. Prendo una latta di acquaragia e la verso sul pavimento e sul corpo inerte di T.C. Trovo anche alcol e trementina. Butto un fiammifero acceso nella stanza ed esco. Torno a piedi allo studio, nascondo il rotolo di tele dietro una trave sopra il mio letto. Mi sdraio. Ho portato a termine il mio compito e il sonno mi prende con facilita.
Javier vuoto il bicchiere. Mentre la gravita di cio che stava leggendo si sprigionava dalla pagina per riempire tutta la stanza del suo orrore cancrenoso aveva continuato a versarsi il liquore e, a quel punto, era ubriaco. Il senso di trionfo lo aveva abbandonato, aveva la sensazione che le sue guance di gomma fossero state ripetutamente schiaffeggiate, i piedi erano nascosti dai fogli caduti dalla mano sempre piu debole. La testa gli ciondolava sulla spalla. Istintivamente raddrizzo il collo, respingendo il sonno e quanto nel sonno lo aspettava, ma ben presto rinuncio a ogni resistenza, lo sfinimento ebbe la meglio, mente e corpo furono messi fuori gioco.
Sogno se stesso addormentato, non da adulto, ma da bambino. Sentiva la schiena calda, era al sicuro sotto la zanzariera e, nel dormiveglia, sapeva che era il sole a scaldarlo e che accanto alla sua testa, sulla parete, poteva vedere attraverso le palpebre abbassate il piccolo cratere che aveva grattato nella parete imbiancata. Senti divincolarsi nel suo corpo la felicita infantile che gli saliva dalle viscere nell'udire sua madre che lo chiamava: «Javier! Javier! Despiertate ahora, Javier!»
Si sveglio immediatamente, perche era certo che la mamma sarebbe stata li nella stanza e che sarebbe stato felice e amato.
Ma lei non c'era. Quello che c'era si agito per un attimo davanti a lui finche la vista non gli si schiari. Era nel suo studio, seduto su una delle sedie dallo schienale alto della sala da pranzo, e non poteva muoversi perche qualcosa gli stava segando il collo, i polsi e le caviglie. I piedi erano nudi e freddi sulle piastrelle del pavimento.
Lunedi 30 aprile 2001, casa di Falcon, calle Bailen, Siviglia
Non c'era nulla sulla scrivania di fronte a lui. I quadri erano stati tolti dalla parete.
«Sei sveglio, Javier?» domando una voce alle sue spalle.
«Sono sveglio.»
«Se cerchi di gridare saro costretto a imbavagliarti con i tuoi calzini, quindi, per favore, sii ragionevole.»
«Non riuscirei piu a gridare ormai.»
«Davvero?» disse la voce. «Vedo che hai letto. Lo hai finito?»
«Si.»
«E che cosa pensi del grande Francisco Falcon e del suo affidabile gallerista, Ramon Salgado?»
«Che cosa ti aspetti che pensi?»
«Dimmelo. Mi piacerebbe sentirlo.»
«Avevo appena cominciato a ritenerlo un mostro… avevo trovato quei cinque terribili dipinti nel suo studio… e ora… ora lo so. Non sapevo, pero, che fosse anche un impostore. Questo aggiunge… o meglio, toglie la dimensione definitiva. E un mostro e basta, non rimane nient'altro.»
«La gente perdona molte cose alle persone di genio», disse la voce. «Tuo padre lo sapeva. Oggi puoi violentare e uccidere, ma se sei un genio saranno indulgenti con te. E perche credi che tolleriamo il male in qualcuno che ha ricevuto il talento da Dio? Perche sopportiamo l'arroganza e i modi rozzi di un grande goleador? Perche accettiamo l'ubriachezza e l'adulterio in uno scrittore, purche ci doni le sue poesie? Perche siamo disposti a stuprare, mutilare, ammazzare per qualcuno che ci da l'illusione di credere in noi stessi? Perche permettiamo al genio di sfuggire al castigo?»
«Perche ci annoiamo facilmente», rispose Javier.