Siberia orientale. 1972
Il sole era sorto soltanto da due ore, ma sarebbe tramontato da li a poco. La luce radente, intensa ma priva di calore, si rifrangeva contro una coltre lattea di nebbia. La fredda e lunga notte siberiana sarebbe scesa molto presto, e i predatori sarebbero usciti dalle loro tane.
Come un predatore, Iosif Drostin si affaccio alla porta della sua casa in legno, poco piu di una capanna in un deserto di gelo e nebbia, strizzando gli occhi per adattarli alla luce e riducendoli a due fessure da cui riluceva lo stesso colore del ghiaccio che tutto attorno si perdeva all’infinito.
«Non posso piu vivere qui», mormoro. «Costi quello che costi.»
Iosif Drostin aveva capelli color paglia e mascella squadrata. Il suo corpo era temprato dalle estenuanti battute di caccia nella steppa. L’espressione del viso era dura, ostile, molto piu matura di quella di un ragazzo di ventun anni.
Se li aveva vissuti in parte in quel deserto lattiginoso, lo doveva al fatto che suo padre era stato deportato li da un tribunale di Iosif Visarionovic Dzugasvili, molto piu noto come Stalin. Iosif, come lui.
La condanna era stata dura, anche se basata su sospetti sommari: da dodici anni di Siberia era difficile uscire vivi. Infatti ormai il padre di Iosif Drostin era morto.
Il compito di prendersi cura di lui era toccato al nonno paterno, Igor Drostin. La madre di Iosif, infatti, pochi mesi dopo la deportazione del marito in Siberia, aveva deciso di sparire anche lei, non facendosi piu vedere.
I modi militareschi di nonno Igor, ex soldato ed eroe della Rivoluzione d’Ottobre, non erano forse i piu adatti per allevare un bambino di soli tre anni, ma il vecchio aveva una riserva apparentemente inesauribile di storie da raccontare. Una, in particolare, misteriosa e affascinante.
Il mattino seguente Iosif Drostin si sveglio molto prima del sole malato di Siberia. Raccolse poche cose in una bisaccia militare, vi infilo i quaderni logori su cui nonno Igor lo aveva tenuto chino per ore e si chiuse dietro le spalle la porta della capanna.
L’unica vera ricchezza che portava con se era il ricordo dei racconti di nonno Igor. E quei quaderni. Forse.
Avviatosi a passo veloce sulla strada sconnessa, si lascio dietro per sempre la notte siberiana.
Citta del Vaticano. 11 agosto 1999
Era davvero singolare che una persona come Patrick Silver fosse al cospetto del papa.
Ma in quella torrida mattina d’agosto, alla fine dell’abituale udienza del mercoledi, Sua Santita lo aveva ricevuto privatamente con un gruppetto di altre persone.
«Il vostro comportamento ha consentito di sventare una grave minaccia per l’umanita intera», disse il papa, rivolto a tutti loro. «Prego, signor Silver», continuo, «sono curioso di sentirmi raccontare nei dettagli la vostra vicenda.»
«La Terza Profezia, Santita…» stava per sbottare Pat Silver, obbedendo al suo spirito sempre scanzonato, ma una volta tanto seppe trattenersi, e la sua espressione si fece intensa, concentrata. Si, era arrivato il momento di essere seri, molto seri. Alla possibilita che quanto stava per dire fosse in qualche modo legato alla Terza Profezia avrebbe accennato, ma in modo molto vago, soltanto alla fine.
E le parole gli si riversarono dalle labbra come un fiume incontenibile.
PARTE PRIMA
LA GASSA D’AMANTE
1
New York. Campus della Columbia University.
Maggio 1978
Pat Silver non era mai stato un allievo modello, ne lo sarebbe mai diventato. A consentirgli di frequentare una delle universita piu prestigiose degli Stati Uniti erano esclusivamente i successi sportivi: era il playmaker della squadra di basket. Venti centimetri in piu di statura, e sarebbe potuto diventare uno dei professionisti piu pagati d’America.
Se questo non sarebbe mai successo, non dipendeva soltanto dal suo metro e ottantacinque, ma soprattutto dalla disinvolta e personalissima visione che aveva della vita.
Il suo compagno di stanza lo stava osservando con un misto di timore e ammirazione stendere i fili sotto il tappeto fino a collegarli al piccolo compressore elettrico nascosto dietro la tenda. Il marchingegno sarebbe entrato in funzione al momento giusto, comandato da un interruttore altrettanto nascosto, facendo «levitare» il tavolo tondo a tre gambe.
La messinscena per la seduta spiritica era pronta. Adesso dovevano soltanto aspettare che arrivassero Maggie Erriot e Annie Ferguson, nella speranza che il trucco escogitato dallo scanzonato campioncino di basket riuscisse a spaventarle. E a quel punto sarebbero stati ben felici di prestare loro tutto il conforto del caso, comprese due affettuose e salde braccia in cui rifugiarsi. Invece non fu cosi.
Ekaterinburg. 1978
Iosif Drostin s’incammino lungo il lato orientale del lago Verch-Iseck e attraverso via Glavnaja all’altezza dei cancelli della fabbrica Uralyzhmash. Nella leggera nebbia mattutina s’intravedevano le figure degli operai. Infagottati nella tuta grigia, tenevano la testa bassa e si battevano le mani sui fianchi per scaldarsi.
Con un ennesimo moto d’insofferenza, Iosif abbasso lo sguardo sulla sua tuta: era troppo lunga e strusciava a terra a ogni passo. Non aveva radici, ma Ekaterinburg era il solo luogo a cui si sentisse in qualche modo legato. Gli anni vissuti li con nonno Igor erano stati belli. Quindi vi era tornato, come un uccello migratore che torna al nido.
«Troverai il tuo avvenire all’incontro delle diagonali, Iosif.» Cosi diceva sempre nonno Igor. Ma quale avvenire? L’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche gli offriva una tuta grigia e un grigio senso di vuoto.
«L’incontro delle diagonali…» ripete Iosif tra se. Chissa che cosa aveva voluto dire nonno Igor con quelle parole. Vi si arrovellava ormai da anni, ma senza venirne a capo.
A pochi isolati di distanza, fino a poco tempo prima c’era Casa Ipat’ev, dove, durante la Rivoluzione d’Ottobre, avevano trascorso i loro ultimi settantotto giorni lo zar e la sua famiglia. E con loro c’era un giovanissimo soldato di nome Igor Drostin. Anche questo, nonno Igor lo aveva raccontato mille volte, facendoglielo scrivere sotto dettatura sul primo dei quadernetti che Iosif conservava come un tesoro. Perche imparasse a scrivere e leggere, diceva il nonno. Su quei quadernetti, insisteva, suo nipote avrebbe costruito il proprio futuro.
Il futuro? Iosif Drostin continuo a camminare a passo svelto: la fabbrica lo stava aspettando per il suo primo giorno di lavoro. Lavoro, bah! Ormai se n’era fatto un’idea precisa: non faceva per lui. La sua indole violenta lo portava a frequenti risse. E poi, vivere di miserie, sapendo che in Oc cidente tutto era tanto diverso…
Non aveva il minimo dubbio, un giorno sarebbe andato in Occidente.