Campus della Columbia University. Maggio 1978

Maggie Erriot e Annie Ferguson erano arrivate puntuali. La pelle da mulatta della prima contrastava con il candore latteo dell’altra. Il braccio automatico del giradischi continuava da circa mezz’ora a posare sul piatto i quarantacinque giri piu popolari. La musica si diffondeva nella stanza.

«Perfetto», penso Silver. E finalmente sbotto: «E se organizzassimo una seduta spiritica?»

Senza aspettare risposta, si accosto al tavolino. Vi presero posto tutti e quattro, obbedendo scrupolosamente ai suoi comandi: sembrava saperla lunga.

«Concentriamoci», ordino. «Adesso uniamo le mani.»

Un breve impulso al comando, e il compressore entro in funzione. Una musica mistica, sapientemente scelta, copri il ronzio del marchingegno. Il tavolo comincio a sollevarsi con un movimento quasi impercettibile.

E Maggie cadde in trance.

I suoi occhi rotearono, la pelle assunse tonalita ceree, la testa si reclino all’indietro.

Derrick Grant, Annie e lo stesso Pat si scambiarono uno sguardo impaurito, ma Silver fu il primo a riprendersi, ordinando: «Non interrompiamo la catena, potrebbe essere pericoloso».

Maggie comincio a parlare. La sua voce usciva a fatica, con le tonalita di un bambino. E soprattutto… parlava una lingua incomprensibile. Scandi soltanto poche parole, poi si accascio sul tavolo, esausta.

«Maggie!» la chiamo Pat, porgendole un bicchiere d’acqua.

La giovane era confusa: «Che cosa mi e successo?» chiese con un filo di voce.

«Boh, hai farfugliato qualche parola in spagnolo», rispose Silver, quasi altrettanto confuso.

«Portoghese», lo corresse Grant che, in quanto figlio di un diplomatico di stanza in Brasile, aveva una certa dimestichezza con quella lingua.

«Che cosa ho detto?»

«Piu o meno: ‘La Profezia incombe, voi potrete salvare il mondo’.»

Rimasero li a lungo a guardarsi stupefatti, chiedendosi quale potesse mai essere il significato di quelle strane parole.

Ekaterinburg. 1978

Iosif Drostin percorreva ogni mattina la stessa strada. La fabbrica era a pochi isolati dal suo alloggio. Scapolo e senza famiglia, non aveva diritto a un appartamento in un casermone popolare.

Per quanto spoglia, comunque, la stanza assegnatagli era senza dubbio piu accogliente della capanna siberiana in cui aveva visto morire suo padre.

Alla morte di nonno Igor, Iosif aveva affrontato il viaggio da Ekaterinburg fino alla Siberia orientale per ricongiungersi con il padre che, scontata la condanna, aveva deciso di rimanere in quella terra gelida e inospitale.

Nella rara corrispondenza che si erano scambiati in quegli anni, il padre gli aveva scritto di avere trovato una nuova compagna: aveva quindi deciso di vivere li con i proventi della caccia agli animali da pelliccia.

Quando l’omelia funebre era stata pronunciata dal pope sulla bara di nonno Igor, Iosif aveva diciotto anni. Il sacerdote aveva esaltato la figura del combattente, definendolo un Eroe della Rivoluzione. Iosif sapeva quanto gli sarebbe mancato il nonno, ma non era riuscito a piangere.

Un mese piu tardi aveva bussato alla porta di una baracca nella steppa siberiana. L’uomo che gli aveva aperto era per lui un perfetto estraneo che esalava un odore di vodka.

«Sono Iosif», aveva detto, «tuo figlio.»

Roma. Una villa sull’Appia Antica. Ottobre 1978

I tredici ospiti raggiunsero la villa alla spicciolata, e la riunione ebbe inizio al sorgere della prima stella.

Gli adepti del singolare rituale, in piedi attorno a un tavolo intarsiato, vestivano una tunica bianca adorna di una croce rossa. Sul petto erano ricamati misteriosi segni astrali. Un cappuccio, anch’esso bianco, lasciava scoperti soltanto gli occhi. La stanza sotterranea dov’erano riuniti sembrava una cripta, dominata da un crocifisso eretto tra due eleganti colonne.

Al centro del tavolo ovale era posata una fune rossa, annodata alle estremita con un nodo particolare. Ciascuno dei tredici partecipanti al rito estrasse un cordoncino dello stesso colore, impreziosito da un filo d’oro intrecciato.

Con movimenti rituali ognuno di essi fece compiere al suo cordoncino un giro attorno alla fune e, con mani esperte, ve lo assicuro con il medesimo nodo che univa le due estremita della fune: una gassa d’amante.

«Non nobis, Domine, non nobis, sed Nomini Tuo da gloriam. Nos perituri mortem salutamus», salmodiarono all’unisono.

Soltanto a questo punto inizio a parlare il Gran Maestro.

«Che cosa vi ha spinto qui, Poveri Cavalieri di Cristo?»

«L’urgenza di conoscere, Maestro», risposero gli altri dodici incappucciati.

«Ma siete pronti alla Conoscenza?»

«Pronti ad affrontare tutto, Maestro, anche la morte.»

«L’avverarsi della Profezia non e lontano, fratelli, ma persino tra noi c’e chi, per interesse personale, ostacola il nostro cammino e compie mosse azzardate, tentando di confonderle con il fine del nostro Ordine.

«Abbiamo bisogno di tempo, non di traditori», continuo il Maestro. «E infatti il tempo che ci ha permesso di rafforzarci: oggi un migliaio di Cavalieri e pronto all’estremo sacrificio per la Causa. Come sapete, sono tutte persone insospettabili, che occupano posti di rilievo in ogni angolo del mondo. Non siamo lontani dal raggiungere il nostro Fine: scacciare Satana dal Trono di Pietro e far si che la vendetta si compia. Soltanto cosi il mondo potra ricominciare a vivere nel nome di Dio. Ma per questo, ripeto, abbiamo bisogno di tempo e non di mosse avventate.»

Gli occhi del Maestro incrociarono minacciosi a uno a uno gli sguardi dei convenuti, i dodici Apostoli del Consiglio Supremo.

«Uno dei nostri fratelli ha sbagliato», riprese in tono grave. «Non abbiamo bisogno di omicidi spettacolari, almeno per il momento. E invece, per appagare la sua brama di ricchezza, uno di noi e ricorso a un assassinio fuori tempo e fuori luogo.»

Uno degli incappucciati prese ad agitarsi, mentre il Maestro continuava: «Non possiamo permetterci errori, ne ci e consentito perdonarli. Ripeto: sara il tempo a darci ragione, quindi non dobbiamo ricorrere a mosse avventate. Mosse che rischiano di attirare l’attenzione su di noi. Nessuno dovra scoprire i Poveri Cavalieri di Cristo fino al momento in cui potranno rivelarsi al mondo per cio che sono: i suoi salvatori».

Due uomini entrarono nella stanza; vestivano abiti normali, ma avevano anch’essi la testa nascosta da un cappuccio. Puntarono risoluti verso il membro del Consiglio Supremo che da qualche minuto manifestava profondi segni d’inquietudine e lo afferrarono sotto le braccia con una presa ferrea.

«Ho agito per il bene di tutti i fratelli, Maestro», cerco di discolparsi il malcapitato. «Il nostro sistema di finanziamento stava per essere scoperto. Ho agito nell’interesse comune. Le finanze del Vaticano… E i sospetti del Pontefice…»

«Hai agito per il tuo interesse», ribatte seccamente il Maestro. «Erano tue le trame finanziarie che stavano per essere svelate, e ti hanno consentito di arricchirti smodatamente. Non sei degno dell’abito che porti, cardinale Vittorio Febi.»

Il fatto che il Gran Maestro avesse pronunciato un nome equivaleva alla condanna a morte.

Il cardinale cerco disperatamente di far valere le sue ragioni, ma le sue parole si trasformarono in un urlo di terrore, mentre i due lo sollevavano di peso e la porta della stanza si chiudeva dietro le loro spalle.

L’incidente sembro non turbare la riunione: dopo pochi istanti il Maestro riprese la parola.

«Bisogna ristabilire il numero dei Santi Apostoli nel Gran Consiglio. Vi chiedo pertanto di accogliervi un giovane fratello.»

Una delle tre porte si apri, e una figura snella si staglio in controluce sotto la lunga veste bianca. Il nuovo adepto era bendato e portava al collo una fune rossa legata con lo stesso nodo rituale. Il Gran Maestro si porto al

Вы читаете Profezia
Добавить отзыв
ВСЕ ОТЗЫВЫ О КНИГЕ В ИЗБРАННОЕ

0

Вы можете отметить интересные вам фрагменты текста, которые будут доступны по уникальной ссылке в адресной строке браузера.

Отметить Добавить цитату