Marco Buticchi
Profezia
«Nessuna profezia venne mai dalla volonta
dell’uomo, ma dagli uomini che parlarono per parte di Dio.»
PROLOGO
Ekaterinburg. Russia. 16 luglio 1918
Il giovane sergente delle Guardie Rosse Igor Drostin si sveglio di soprassalto al rumore di una vettura entrata nel cortile. Si avvio verso la grande sala e osservo la pendola a parete: mancavano dodici minuti a mezzanotte. Poco dopo sarebbe cominciato il suo turno di guardia.
Dalla stanza attigua, usata come dormitorio, Igor sentiva distintamente arrivare i rumori dei suoi soldati che si stavano vestendo. E dall’esterno, attraverso le finestre socchiuse, gli arrivava a tratti anche la voce del comandante. Era un’estate molto calda, ma a Casa Ipat’ev, per motivi di sicurezza, negli appartamenti riservati alla famiglia imperiale era severamente proibito aprirle completamente.
I nuovi venuti dovevano essere personaggi importanti, almeno a giudicare dal tono deferente e al tempo stesso marziale con cui si rivolgeva loro il comandante. Igor Drostin sbircio nell’oscurita del cortile, e la sua supposizione fu confermata dalle bandierine rosse: la vettura appena arrivata aveva portato li un potente del Soviet degli Urali.
Quando entro nella dimora, il comandante Jurovskij aveva un’espressione cupa, la stessa a cui era atteggiato il suo viso dal tardo pomeriggio, quando aveva chiesto a Igor e a Medvedev di ritirare tutte le rivoltelle d’ordinanza Nagant in dotazione alle guardie.
«Sergente Drostin», ordino, «svegliate la famiglia di Nikolaj Romanov e radunatela in una stanza.»
Igor non era abituato a fare domande, ma questa volta non riusci a trattenersi: «Che cosa succede, comandante? Si teme un attacco dei Bianchi?» I cannoni tuonavano infatti in lontananza da un paio di giorni, e i boati si andavano sempre piu avvicinando.
«Gia», replico l’ufficiale, come se la domanda del suo sottoposto lo avesse illuminato. «Si, sara questa la spiegazione che dovrete dare allo… allo zar. Ma sappiate che mi e stato appena confermato l’ordine di eseguire la sentenza di morte dei Romanov.»
«Dovranno morire anche i ragazzi?»
«Forza, forza», ribatte il comandante. «Spicciatevi, Drostin, e basta domande.»
Tutti gli undici prigionieri, tra membri della famiglia imperiale e servitu, furono condotti in un locale del seminterrato, una camera con soffitto a volta e carta da parati a righe, a cui si accedeva attraverso un’anticamera. Sulla destra c’era una finestra sbarrata da un’inferriata; una porta dava su un magazzino cieco.
La notizia che le truppe controrivoluzionarie minacciavano un attacco aveva riacceso un filo di speranza nello zar, duramente provato da diciotto mesi di prigionia.
Il comandante Jurovskij lascio gli ignari prigionieri in custodia a Drostin e usci, seguito da alcune guardie. Quando furono nell’anticamera, rimosse un drappo militare che copriva le venti pistole ritirate in precedenza.
«Alcune sono caricate a salve, in modo che non sappiate chi ha colpito e in futuro non vi sentiate perseguitare dal rimorso di aver ucciso donne e bambini», spiego. «Drostin!» chiamo poi: «Andate ad avvertire il corpo di guardia di non preoccuparsi per gli spari».
Quindi Jurovskij rientro nel seminterrato, e, a occhi bassi, annuncio: «Il Soviet degli Urali ha decretato la condanna a morte per voi e per i vostri familiari, Nikolaj Romanov. Avete un ultimo desiderio?» Soltanto allora alzo lo sguardo sull’espressione fiera dello zar di tutte le Russie.
Nicola pareva non temere la morte, ma un velo di angoscia apparve nel suo sguardo quando lo fece scorrere sui figli e sulla zarina, Alessandra d’Assia.
«Non ci porterete dunque via da qui?» chiese semplicemente. E senza aspettare la risposta si strinse ai suoi, mentre gli uomini del plotone prendevano posizione.
Igor Drostin usci all’aperto, e l’aria gli sembro piu pura per il sollievo che l’ordine del comandante lo avesse risparmiato dall’assistere, o peggio partecipare, all’esecuzione. S’incammino con passo rapido verso i nidi di mitragliatrici posti a protezione di Casa Ipat’ev, a ridosso della palizzata eretta per difenderla. Stava per raggiungere il corpo di guardia nella vicina Casa Popov, quando senti distintamente gli spari.
Le Nagant 7.62 avevano fatto fuoco tutte insieme all’abbassarsi della mano del comandante. I proiettili avevano continuato a piovere sui membri della famiglia imperiale e sui loro fedeli servitori fino a quando l’ultimo di essi non si era accasciato a terra.
Jurovskij, con la pistola d’ordinanza ancora fumante, si fece largo tra i corpi, imbrattandosi di sangue gli stivali. Alcuni erano ancora vivi, e fu costretto a finirli con un colpo alla nuca.
Il camion Fiat giunse nel cortile della casa poco dopo. I corpi, sfigurati dai colpi d’arma da fuoco e dalle baionette, furono avvolti in coperte militari e caricati sul cassone.
Vladimir Nareev, un caporale che aveva partecipato all’esecuzione, scosto un lembo della coperta, scoprendo il volto austero e cereo dello zar giustiziato; dalla bocca spalancata colava un rivolo di sangue rappreso.
Nareev gli sputo in faccia, maledicendolo. Drostin lo trascino via. «Abbi almeno rispetto per i morti, caporale.»
«Certo, compagno Drostin», ribatte l’altro in tono beffardo. «Lo stesso rispetto che hanno avuto loro per il popolo russo. Di che cosa ti impicci?»
La voce del comandante blocco sul nascere la possibile disputa. «Voi due, salite su quel camion. Raggiungerete il luogo stabilito per la sepoltura e monterete la guardia fino a nuove istruzioni.»
«Montare la guardia a undici cadaveri?» si chiese Igor Drostin.
Soltanto quando superarono il passaggio a livello numero 184, si rese conto che erano diretti alla zona mineraria abbandonata detta dei Quattro Fratelli.
Nel chiuso della miniera, Igor Drostin fu di nuovo svegliato di soprassalto da un rumore. Aperti gli occhi, si vide davanti il viso di Nareev, torvamente illuminato dalla fiammella di una lanterna. L’espressione omicida del suo camerata lo gelo.
Lo sgomento duro soltanto l’ombra di un istante, poi l’istinto di sopravvivenza prevalse. Igor si getto di lato alla disperata, sfuggendo alla baionetta, e, stretto fulmineamente il pugnale, roteo su se stesso e rispose all’assalto. Mentre era ancora in movimento, taglio la gola all’aggressore con un solo fendente. Nareev crollo a terra in una pozza di sangue, mentre il fiato gli fuggiva dalla gola con un gorgoglio.
Ancora ansante di sgomento, Igor si lascio cadere sul pagliericcio e chiuse gli occhi. Perche il suo camerata aveva agito in quel modo da pazzo? Possibile che il loro breve scontro verbale di qualche ora prima gli avesse fatto perdere la testa fino a quel punto?
Ormai le sue domande non avrebbero piu avuto risposta. Tiratosi a sedere e rimasto qualche lungo istante a guardare come inebetito il corpo senza vita di Nareev e la pozza di sangue che si allargava sempre piu, Igor si riscosse. Si alzo e si avvio verso lo slargo della galleria dov’erano stati gettati i cadaveri dei giustiziati.
Il corpo di una delle donne era stato denudato. In un primo momento Igor penso che Nareev, veramente impazzito, avesse abusato del cadavere, ma poi, visti gli abiti stracciati gettati intorno alla rinfusa, capi tutto. E, soprattutto, perche Nareev avesse cercato di ucciderlo.
Gli abiti dei Romanov erano letteralmente foderati di pietre preziose, cadute a terra dagli squarci aperti dalla lama del suo camerata.