aveva fermato per strada la settimana prima. Occhi cerchiati di rosso, guance incavate, i capelli in disordine. Offri alla telecamera un sorriso incerto, di sbieco, e disse: 'Ti ho visto all’olovisione, e ho potuto mandarti questo. Ti prego, Nat, non spegnere. Non immagini neanche…'

Macy allungo la mano e schiaccio il pulsante. Ti prego, Nat. Non poteva sopportarlo. Il suo vecchio nome. Era come se gli infilassero delle schegge di legno sotto le unghie, come aghi dietro gli occhi. La notte prima i sogni erano stati peggiori che mai. Si era visto come due fratelli siamesi, con uno dei corpi che graffiava e mordeva il suo fratello identico. Poi la botola della soffitta che si apriva e la cosa sventrata che ne usciva vacillando. Era stata la ragazza a dare inizio a tutti i suoi traumi; non c’erano stati brutti sogni prima di quel maledetto incontro. Non intendeva offrirle una seconda occasione per rendere miserabile la sua vita. Se quel bastardo di Gomez non gli dava una terapia di supporto, doveva difendersi da solo contro i potenziali sconvolgimenti interiori. E quindi era necessario evitare nuove occasioni di angoscia.

Macy regolo l’apparecchio su Cancellazione e fece per premere il bottone. Poi nella sua mente vide la faccia triste, consunta della ragazza. Un essere umano come lui. Anche lei soffre. Potrei ascoltarla almeno una volta.

Schiaccio di nuovo Playback, e lei riapparve, dicendo: 'Ti ho visto all’olovisione, e ho potuto mandarti questo. Ti prego, Nat, non spegnere. Non immagini neanche quanto tu significhi ancora per me, anche dopo tutto quello che e successo. So che hai subito la Riab, e le cose devono sembrarti un po’ strane, e non vuoi parlare con gente della tua vecchia vita. Ma averti trovato per strada e stato un tale miracolo che non posso semplicemente far finta che tu non esista. Perche non ce la faccio a tirare avanti cosi ancora per molto, Nat. Sto male. Ho bisogno di aiuto. Sto affondando e qualcuno mi deve buttare una corda.'

C’era dell’altro, sullo stesso tono. Diceva che l’avrebbe aspettato mercoledi sera alle sei, all’angolo nord-est fra la 227 e Broadway, di fronte agli uffici della compagnia, e che l’avrebbe aspettato alla stessa ora anche le due sere successive, nel caso non fosse libero mercoledi. Oppure, se preferiva mettersi d’accordo in un altro modo, poteva chiamarla a casa, qualsiasi giorno dopo le undici di mattina, al numero tale. Con tutto il mio amore. La tua Lissa Moore.

Non posso, penso. Non oso. Cancello il cubo. Quella sera usci con dieci minuti di anticipo, usando l’ingresso est dell’edificio per evitarla. Fece lo stesso giovedi e venerdi.

Lunedi trovo un altro cubo. Se lo tenne in tasca per tre ore; era riluttante a cancellarlo, ma aveva paura di vederlo. Alla fine lo infilo nella fessura. Sullo schermo, la faccia pallida della ragazza, su uno sfondo nero come il velluto. La bocca piegata in una strana smorfia. Un gonfiore ipertiroideo negli occhi che non aveva notato prima. Lilluminazione della cabina dove aveva registrato il messaggio era troppo forte, e sembrava strapparle la carne dagli zigomi. La sua voce, impulsiva, non modulata: 'Non sei venuto. Ho aspettato, ma non sei venuto. Va bene, Nat. Paul. Forse non ti importa niente di me. Forse hai i tuoi guai a cui pensare, e non puoi perdere tempo con me. Non ti disturbero piu. Aspettero ancora questa sera, alle sei, stesso angolo, Broadway e 227, lato nord-est. Se non ci sarai per le otto e mezzo, per le nove io saro morta. Faccio sul serio. Adesso sta a te'.

3

Pochi minuti dopo le sei era ancora nella sala stampa, dove stava terminando l’ultimo pezzo della giornata. Una rabbia fredda e torva lo attanagliava tuttora. Si uccidesse pure, quella troia. Non intendo farmi ricattare in questa maniera. Lei non significa niente per me, se non guai.

Con un gesto secco assunse il controllo dell’occhio volante che sorvegliava la strada al di fuori dell’edificio, tenendo costantemente sotto controllo eventuali dimostrazioni, attentatori, gente che si suicidava per protesta. Con movimenti abili, imparati da poco, fece muovere la telecamera aerea lungo la via, fino all’angolo dove Lissa aveva detto che l’avrebbe aspettato. Adesso il controllo fine.

Si, eccola. Passeggiava in un piccolo cerchio, una zona chiusa di tensione, sulla strada affollata. Che vada al diavolo. Puo fare quello che le pare di se stessa. Quello che le pare. Macy firmo e lascio la sala stampa, e scivolando sulla superficie ghiacciata della sua rabbia, si diresse verso il pozzo. Giu per quaranta piani. Attraverso l’atrio, velocemente. Fuori. Una dolce serata di primavera. Lunghe file di impiegati diretti verso casa, che si infilavano nell’imboccatura del tubo. Era facilissimo evitarla in mezzo a quella folla. Bastava scivolare via.

Ma si accorse di camminare verso di lei. Uno-due-uno-due; non riusciva a fermarsi. Lei sembrava stesse parlando fra se; gli occhi rivolti in basso, non si accorse di lui. Da venti metri di distanza la guardo con occhi corrucciati. Chi diavolo crede di essere, per usarmi in questa maniera? Giocare coi miei sentimenti. Ho bisogno di te, ho tanto bisogno di te! Con sottofondo di violini. Sfruttando il mio senso di colpa. Incontriamoci all’angolo, o saltero giu dal ponte di Palisades! Sicuro. Che mi importa se vuoi saltare giu da un ponte, tesoro? Non ho nessuna ragione di provare sensi di colpa. Colpa? Non ho fatto un bel niente. Sono tutto nuovo. Cristo, sono perfino vergine. Esatto: Paul Macy e vergine. Un maledetto vergine.

Era giunto a pochi passi dalla ragazza, ma lei non l’aveva ancora visto. Fece per toccarle un braccio ma si arresto, mentre un curioso senso di fastidio gli passava nel cranio. Ancora quella sensazione di duplicita, quella confusione di identita. Disorientamento. Un risuonare lontano, come di una campana attutita. Assieme a esso arrivo un rapido spasmo di nausea, una lieve costrizione attorno al pomo di Adamo.

Poi tutti i sintomi fastidiosi svanirono. Le tocco il braccio. — E va bene — disse scorbutico. — Svegliati! Sono qui. E stato uno sporco trucco, ma ci sono caduto. Ed eccomi qui.

— Nat! — Guardandolo con un misto di stupore e felicita. Macchie di colore che punteggiavano le sue guance. Le palpebre che sbattevano; ha paura di me, si rese conto d’improvviso. Ebbe un secondo attacco di inquietudine, che spari prima di avere un effetto qualsiasi. — Oh, Nat, grazie a Dio sei venuto.

— No — disse lui. — Stabiliamo questo una volta per tutte. Io mi chiamo Paul Macy. Se vuoi avere qualcosa a che fare con me, devi chiamarmi con questo nome, e basta. Paul Macy. Dillo.

— P-Paul.

— Dillo tutto.

— Paul Macy. Paul Macy.

— Bene. — Gli stava venendo il mal di testa: due lance di dolore che convergevano verso il centro del cranio. Quella ragazza non gli faceva bene. — Nat Hamlin non esiste piu, e cerca di non dimenticarlo — disse. — Dunque: volevi incontrarmi, e sono venuto. Cos’hai in mente?

— Sembri cosi crudele, Paul. — Incespico sul Paul.

— Solo irritato. La tua minaccia di suicidio… Che miserabile ricatto. Avrei dovuto vedere il tuo bluff.

— Non era un bluff.

— Come vuoi tu. Ci sono caduto e sono qui. Cosa vuoi?

— Non possiamo parlare qui — disse lei. — In mezzo alla gente. Per strada.

— Dove, allora?

— A casa tua?

Lui scosse la testa. — Assolutamente no.

— La mia, allora. Possiamo arrivarci in quindici minuti. E tutto sporco, ma…

— Cosa ne dici di un ristorante? — suggeri lui.

Lei si illumino. — Benissimo. Qualsiasi locale vuoi tu. Uno dei tuoi preferiti, dove ti sentirai a tuo agio. Lui cerco di pensare a uno dei suoi ristoranti preferiti.

— Non conosco nessun ristorante — disse. — Scegline uno tu.

— Non ne conosci nessuno? Ma se mangi sempre fuori, praticamente ogni sera. Era una specie di mania per te…

— Quello era Nat Hamlin — disse lui. — Sara stato lui a mangiare fuori ogni sera. Se lo dici tu. Ma non io. Non ancora.

Frugo nella sua riserva di ricordi, cercando il nome di qualche ristorante di Manhattan. Zero. Avrebbero dovuto fornirgli il nome di qualche ristorante quando avevano costruito Paul Macy, al Centro Riab. Non sarebbe stato affatto difficile per loro. Gli avevano dato ogni genere di ricordi. Campione della squadra di lacrosse al liceo. Varicella. Un padre e una madre. Una gamba rotta sulla montagna di Gstaad. Letture di Proust ed Hemingway. Una mano infilata sotto la polo di Jeanie Grossman. Trentacinque anni di ricordi fasulli. Ma nessuna informazione sui ristoranti. Forse Gomez, Iannuzzi e Brewster non mangiavano molto fuori. O forse l’argomento ristoranti era

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