nascosto in qualche angolo della sua mente che non aveva ancora scoperto. Disse: — Sul serio. Non ne conosco nessuno. Scegli tu.

— C’e un ristorante del popolo a due isolati da qui. Ci vado spesso. Lo conosci?

— No.

— Potremmo andare li.

Era un locale lungo e stretto, con pareti di ottone annerito e un fascio di fili luminosi che lampeggiavano difettosamente, intrecciati al soffitto di paglia. Era un self-service: uno prendeva quello che voleva, da una serie di cubicoli automatici lungo il bancone. Poi ci si sedeva a lunghi e squallidi tavoloni comuni. Macy, seguendo Lissa lungo il bancone, chiese: — Come fai a sapere cosa spendi?

— E un ristorante del popolo.

— E allora?

— Non sai cosa sia?

— Ci sono tante cose nuove per me.

— Paghi quello che ti puoi permettere — disse. — Se non hai soldi, mangi e ti metti in pari la volta successiva. Oppure vai ad aiutare a lavare i piatti.

— Funziona il sistema? — chiese Macy.

— Non molto bene. — Fece un sorriso spento, e comincio ad accumulare cibo sul suo vassoio. In pochi momenti l’aveva completamente occupato con i piatti. Cinque tipi diversi di carne sintetica, una montagna di insalata e verdure, tre panini e altre cose. Lui fu piu modesto: succhi vegetali, bistecca proteoide, fritto di alghe, una tazza di no-caffy. Al termine del bancone c’era un terminale del credito centrale, Lissa ci passo a fianco senza degnarlo di un’occhiata. Macy esito un momento, confuso, scrutando lo schermo verde scuro. Con fare innervosito, autorizzo il terminale ad addebitare dieci dollari sul suo conto. Una ragazza con la faccia piatta, che lo seguiva nella fila, sbuffo con disprezzo. Si chiese se avesse pagato troppo o troppo poco. Lissa era gia diretta verso un tavolo vuoto, in fondo al ristorante. Afferro il vassoio e la raggiunse.

Si sedettero l’uno di fronte all’altra, il piano nudo del tavolo fra di loro. — Ho qualche oro — disse lei. — Ne vuoi una?

— Non saprei.

— Prova. — Tiro fuori un pacchetto. Il coperchio si apri e ne usci una sigaretta. Lui la prese. Anche lei ne prese una, e lui la osservo attentamente mentre premeva il cappuccio di accensione con l’unghia. Fece la stessa cosa. Una tirata profonda. Quasi immediatamente senti un senso di vertigine e un’accelerazione dei battiti. Lei gli strizzo un occhio e gli soffio il fumo in faccia.

Poi comincio a mangiare, come se fosse a digiuno da settimane. La maniera con cui divorava il cibo, del tutto inconsapevole della propria voracita, lo affascinava: era come guardare un incendio spazzare un campo secco. La testa protesa in avanti, le mascelle che lavoravano freneticamente. Rumori di masticazione. Denti bianchi che balenavano. Lui rimase seduto immobile, inalando la sigaretta, cercando senza successo di infilzare un pezzo di alga con la forchetta. Lei alzo gli occhi. — Non hai fame? — chiese con la bocca piena.

— Non quanto te, suppongo.

— Non badare a me.

Lissa aveva i polsi sporchi, e c’era un velo di sudiciume visibile sul suo collo, indossava la medesima giacca blu del primo giorno in cui l’aveva vista. Ancora una volta nessun trucco. Le unghie erano spezzate. Ma non era in disordine soltanto esteriormente: emanava un senso di disgregazione interiore che lo terrorizzava. Evidentemente un tempo era stata una ragazza molto bella, forse straordinariamente bella. Tracce di questa bellezza ancora rimanevano. Ma aveva un aspetto disseccato, consumato, come se una febbre dell’anima avesse consumato la sua sostanza. Gli occhi, grandi e iniettati di sangue, non rimanevano mai fermi, svolazzando come uccelli da un posto all’altro. Guance piu incavate del dovuto. Le mancavano circa cinque chili al peso ideale, calcolo. E aveva bisogno di un bagno. Spense il suo mozzicone e si taglio un pezzo di bistecca. Filetto di cartapesta. Inghiotti a fatica.

Lissa disse: — Cosi va meglio! Un po’ di cibo in pancia, finalmente.

— Perche avevi cosi fame?

— E sempre cosi. Brucio energie.

— Sei ammalata?

Lei alzo le spalle. — Chi lo sa? — Lo fisso per un momento negli occhi. — Sto cercando di pensare a te come Paul Macy. Non e facile, stando seduta con Nat Hamlin di fronte.

— Nat Hamlin non esiste.

— Davvero non ti ricordi di me?

— Zero — disse lui.

— Merda! Ma cosa ti hanno fatto al Centro Riab?

Lui disse: — Hanno imbottito Nat Hamlin di dissolvitori di memoria, finche di lui non e rimasto piu niente. Solo una specie di zombie, capisci? Un corpo vuoto e sano. La societa non vuole sprecare un bel corpo sano. Poi hanno costruito me dentro la testa dello zombie.

— Costruito? Cosa vuoi dire con 'costruito'?

— Mi hanno creato un’identita. — Chiuse un momento gli occhi. Gli sembrava di avere il colletto troppo stretto. Una sensazione di soffocamento. Non era previsto che spiegasse cose del genere. Il mondo doveva dare tutto quanto per scontato. — Hanno costruito il passato, un insieme di eventi in cui possa muovermi come se fossero realmente accaduti. Per esempio che sono cresciuto a Idhao Falls, e mi sono trasferito a Seattle a dodici anni. Mio padre era ingegnere e mia madre insegnante. Adesso sono morti entrambi. Ne fratelli ne sorelle. Facevo collezione di francobolli africani, andavo a caccia e a pesca. Sono stato all’universita, l’UCLA, classe ’93, e mi sono laureato in filosofia e comunicazioni. Due anni di servizio civile, in Bolivia ed Ecuador, facendo la voce fuori campo per il Canale della Repubblica Del Popolo. Poi vari lavori TV e OV in Europa e negli Stati, e adesso qui a New York. Eccetera eccetera.

— Mio Dio — disse lei. — Ed e tutto falso?

— Piu o meno. Segue la biografia di Nat Hamlin finche puo. Riguardo all’eta, per esempio. O il fatto che Hamlin si sia rotto una gamba quando aveva ventisei anni, e questo si vede dall’osso, cosi mi hanno fatto avere un incidente di sci per quell’anno.

— Cosa succederebbe se controllassi i registri dell’UCLA, cercando Paul Macy nel ’93?

— Lo troveresti. Con un asterisco Riab, per indicare che e solo una registrazione fittizia che copre un’identita retroattiva. La stessa cosa troveresti nel registro delle nascite di Idhao Falls. Fanno un lavoro molto accurato.

— Cristo — disse Lissa. E rabbrividi. — E una cosa raccapricciante! Sei davvero una persona interamente nuova.

— Non so fino a che punto sono una persona. Ma nuovo di sicuro.

— Allora non hai nessuna idea su chi sia io?

— Posavi per Nat Hamlin, vero?

Lei parve sorpresa. — Come fai a saperlo? Non ho mai detto a nessuno…

— Quel giorno che mi hai fermato per la strada — disse lui — mentre parlavamo, ho visto per un attimo la tua immagine, nuda in uno studio, e io ero chino su una tastiera complicata e ti dicevo di gridare. Come uno psicoscultore che cerchi di ottenere un effetto emotivo. E durata forse mezzo secondo, poi e sparita. — Si inumidi le labbra. — E stato come se un pezzo della memoria di Nat Hamlin venisse alla superficie.

— O un pezzo della mia mente che entrava nella tua — disse lei.

— Eh?

— Succede, non riesco a tenerlo sotto controllo. — Una risatina acuta. — Da qualsiasi parte ti sia venuta, era vera. Ero una delle modelle di Nat Hamlin. Dal gennaio all’agosto del ’06, quando lavorava alla sua Antigone 21. Quella che ha comprato il Metropolitan. La sua ultima grande opera, prima del crollo. Sai del suo crollo?

— Qualcosa. Non parlarmene. — Sentiva un cerchio di fuoco intorno alla testa. Il semplice fatto di stare per tanto tempo vicino a qualcuno appartenente alla sua vecchia vita era doloroso. — Mi dai un’altra oro?

Lei gli porse la sigaretta e disse: — Sono stata anche la sua amante, per tutto il cinque e gran parte del sei. Diceva che avrebbe divorziato e mi avrebbe sposato. Come Rembrandt. Come Renoir. Innamorato della modella. Solo che invece perse la testa. E comincio a fare tutte quelle cose.

Macy, d’improvviso vulnerabile, cerco di fermarla sollevando una mano, ma non c’era modo di arrestare il flusso delle sue parole. — L’ultima volta che l’ho visto e stato il Giorno del Ringraziamento del 2006. Al suo studio.

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